giovedì 5 novembre 2009

C'era amore nel ghetto, Marek Edelman lo racconta

Non è certo un esercizio di compiaciuta retorica, né di ritualismo stilistico, affermare che con la morte di Marek Edelman, testimone a pieno titolo del Novecento, venuto a mancare a Varsavia il 2 ottobre 2009, si sia chiusa definitivamente un’epoca storica e culturale. Si tratta di quel transito che ha caratterizzato una robusta parte dei paesi dell’Europa centro-orientale negli anni degli sfaldamenti dei grandi imperi e della formazione del consesso degli stati nazionali, così come delle politiche dei confini e delle nazionalità che ne derivarono, accompagnandosi fino agli anni cinquanta del secolo trascorso. Edelman, di quell’epoca e di ciò che ne derivò dopo, soprattutto per quella che veniva allora chiamata la «questione ebraica», era peraltro divenuto il «custode della memoria», essendo questo l’unico ruolo che aveva voluto ritagliarsi, in modo tale da non viverlo come troppo opprimente. Il resto non lo interessava e non mandava di certo a dirlo, essendo tutto fuorché un uomo pieno di quella diplomazia che fa rima con ipocrisia. Noi, pur riconoscendogli tale funzione, ci piace pensarlo anche come il prototipo del testimone, poiché di molte delle cose di cui parliamo oggi lui era stato diretto partecipe o ne aveva raccolta la storia dalla viva voce degli interessati. Così, allora, per la storia del Bund polacco, il partito socialista degli ebrei dell’Europa orientale, del quale fu uno dei giovani animatori, ma anche e soprattutto per le vicende del ghetto di Varsavia, tra il 1940 e il 1943, così come della disperata lotta dei giovani che si opposero ai nazisti e poi, a proseguire, degli anni della «democrazia popolare» polacca, quando il paese fu ghermito dalla presa sovietica, fino alla nascita e allo sviluppo di Solidarność. Di lui ci rimane il ritratto, impresso nella mente di coloro che l’avevano conosciuto, di un uomo aspro e duro, prima di tutto con se stesso. Non una roccia né tanto meno un orco bensì un individuo che portava i segni della storia impressi sul voto e che affidava alle molte sigarette il suggello del trascorrere del tempo. Marek Edelman era nato in quelle terre, tra Polonia e Russia, che hanno ospitato l’«Yiddishland», teatro dei drammi così come del lievitare delle speranze di quegli «Ostjuden», gli ebrei dell’Est, che hanno costituito uno degli anelli più forti della «Golà», la diaspora. Nelle traiettorie di milioni di donne e uomini, trascinati dalla violenza dei processi di modernizzazione, a cavallo tra Ottocento e Novecento, è nato l’ebraismo così come lo conosciamo noi. La cultura yiddish ne è stata a lungo il bacino di coltura, raccogliendo e organizzando le molteplici pulsioni verso una emancipazione impedita e nei confronti di un desiderio di eguaglianza frustrato quotidianamente da condizioni di vita per i più abiette. Con quest’ultimo libro, «C’era l’amore nel ghetto», che esce ora in lingua italiana, sia pure postumo, per la cura di Wlodek Goldkorn, Ludmilla Ryba e Adriano Sofri, Edelman, del quale Paula Sawicka ha raccolto le conversazioni, organizzandole in un testo coerente, ci racconta di quale pasta fosse fatta «una nazione di tre milioni di individui», che in Polonia, a cavallo tra le due guerre mondiali, ebbe la possibilità di godere di una fioritura unica nel suo genere. Negli anni dell’infanzia e della gioventù di Edelman, nato nel 1919 a Homel, oggi in Bielorussia, l’insediamento ebraico ashenazita, permeatosi e ibridatosi con l’ambiente urbano, aveva infatti avuto modo di esprimere alcune tra le sue manifestazioni più significative. È di quel periodo, pur con tutte le difficoltà che gli ebrei continuavano a incontrare nel rapporto con i polacchi, e anche dinanzi all’adozione di una legislazione discriminatoria nei loro confronti, di poco precedente alla tragica invasione nazista del 1939, la diffusione del circuito culturale yiddish, che era divenuto parte a pieno titolo della tradizione nazionale: teatri, cinema, case editrici, giornali ma anche associazioni sportive e ricreative, sindacati, partiti e così via. Edelman, che non è uno storico, tanto meno della società ebraica, ne racconta però la sua traiettoria e, in essa, l’estinzione dal momento in cui arrivarono i tedeschi e gli ebrei finirono prima nei ghetti e poi nei campi di sterminio. Se della rivolta, nell’aprile del 1943, del più importante d’essi, quello di Varsavia, egli fu uno dei capi, in quanto sopravvissuto, ha cercato poi di preservarne e coltivarne la memoria. Da ciò, ovvero dal buon uso della memoria, deriva quindi questo volume che è come una raccolta di quadri di vita quotidiana. La premura dell’autore è di non costringere in un’unica immagine pur fondata, quella della sofferenza per via delle persecuzioni, le tante storie di quella tragica esperienza. Il titolo lo dimostra, laddove richiama l’amore, inteso come pratica quotidiana, vissuta fisicamente prima ancora che spiritualmente, nella sua istanza di umanità, poiché unico antidoto alla barbarie dell’occupante. Ne vengono così fuori una quindicina di capitoletti nei quali sono contenute le ragioni della vita di contro a quelle della morte. Era in fondo questo il lavoro di Marek Edelman, quando si poneva il problema di «arrivare prima del signore Iddio», come combattente della resistenza ebraica e poi come medico cardiologo, militante dell’opposizione polacca al regime comunista.Claudio Vercelli http://www.moked.it

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