sabato 20 marzo 2010


George Mitchell


Su Isralele l'ombra di una nuova intifada

da Il Giornale del 17 marzo 2010 di Gian Micalessin
Per una nuova intifada ci vogliono sempre l'ombra diAl Aqsa e di un grande complotto israeliano. I palestinesi lo sanno bene. Ci provarono già nel settembre 1997. Allora l'apertura di un tunnel sotto la Spianata delle moschee, autorizzata da un Benjamin Netanyahu al suo primo mandato, si concluse con una serie di scontri costati settanta morti. Tre anni dopo, la passeggiata di Ariel Sharon e l'uccisione di una decina di dimostranti portarono in pochi giorni allo scoppio della seconda intifada, alla cancellazione degli accordi di Camp David e all'orrore dei kamikaze. Dieci anni dopo i capi palestinesi ripartono da lì. Stavolta, a dar retta alla dirigenza di Hamas e Fatah, per una volta nuovamente d'accordo, il futuro di Al Aqsa e del Haram al-Sarif (il nobile santuario) è minacciato dalla sinagoga di Hurva, un piccolo edificio ridotto in rovine (Hurva significa appunto rovina) dalla guerra del 1967 e da allora mai ricostruito. L'inaugurazione celebrata domenica notte, dopo un restauro prolungatosi per oltre otto anni, diventa il miglior pretesto per risvegliare la rivolta degli arabi di Gerusalemme. Certo dietro la giornata di scontri nelle strade di Gerusalemme conclusasi, ieri, con il ferimento di una quarantina di dimostranti palestinesi ci sono anche ragioni più profonde, prima fra tutte la complessa questione degli insediamenti ebraici nel cuore di Gerusalemme Est. La costruzione di 1600 nuovi appartamenti all'interno di quei quartieri orientali che i palestinesi considerano la futura capitale del loro Stato ha già contribuito a incrinare i rapporti con l'amministrazione Obama, trasformando in scontro politico la visita del vicepresidente statunitense Joe Biden. A rinfocolare la tensione hanno contribuito lunedì le dichiarazioni del premier israeliano che - dopo essersi scusato con la Casa Bianca- ha difeso la presenza israeliana nel cuore di Gerusalemme Est definendola «indolore» per i palestinesi. A quelle parole ha fatto seguito - ieri il brusco comunicato con cui il Dipartimento di Stato di Washington ha cancellato visita dell'inviato della Casa Bianca Joe Mitchell, atteso in Israele già ieri sera. La dura posizione assunta dalla Casa Bianca è - dal punto di vista palestinese un'ottima ragione per tornare a scendere in piazza e cercare di riguadagnare credibilità e legittimità dopo anni di crisi e di perdita di consenso tra la propria popolazione. Ma senza l'ombra di un complotto, senza la leggenda di una profezia che lega la riedificazione della sinagoga Hurva ad un'imminente ricostruzione del terzo tempio ebraico nessuno sarebbe riuscito ad evocare un'autentica giornata della rabbia palestinese. Probabilmente ci sarebbero stati incidenti e scaramucce, ma non più violenti di quelli che si registrano da settimane. La ricostruzione di quella sinagoga che per uno strano gioco di prospettive sembra a tratti - sovrastare la sacra Spianata delle moschee è riuscita invece a rinfocolare le antiche paure e riaccendere la voglia di rivolta nei cuori arabi di Gerusalemme. I primi a capirlo sono quelli di Hamas, prontissimi a proclamare la "giornata della rabbia" e nello stesso tempo a diffondere le voci sull'imminente entrata in azione di gruppi di fanatici israeliani pronti a occupare la Spianata e a distruggere la santissima moschea di Al Aqsa per ricostruirvi sopra il cosiddetto "terzo tempio". A dar fiato alle trombe del grande complotto israeliano ci pensa lunedì il capo di Hamas Khaled Meshal. Commentando l'inaugurazione e la ristrutturazione della sinagoga, il leader in esilio a Damasco la definisce il primo atto verso «la distruzione della moschea di Al Aqsa e la costruzione del nuovo tempio». E ieri un portavoce del presidente palestinese Mahmoud Abbas a Gerusalemme annuncia a nome di tutta Fatali il dovere di ribellarsi per «contrastare il piano del governo israeliano che punta ad inghiottire la capitale palestinese». Per la prima volta dopo tre anni Hamas e Fatah sono nuovamente d'accordo e insieme ringraziano l'intransigenza di Netanyahu e quella di Obama.

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