sabato 20 marzo 2010




Irène Némirovsky


Da Kiev a Parigi: vita di Irène, tra amori, crudeltà e salotti


Un talento letterario riscoperto solo pochi anni fa. Star dei circoli mondani nella Parigi degli anni Trenta, l’intera vita della scrittrice Irène Nemirovsky somiglia a un romanzo. Una biografia ne ripercorre oggi il destino, fino al tragico epilogo in un lager, nel 1942. La storia di Irène Némirovsky racconta la forza della letteratura capace di creare interi mondi, ma non capace - nonostante la grandezza di questa scrittrice - di mutare un destino che fin dall’inizio ha un senso d’ineluttabilità. Di lei, ebrea russo-francese nata nel 1903, che per le sue origini (malgrado una conversione al cattolicesino durante il nazismo), scompare nei forni di Auschwitz nel 1942, hanno ricostruito la figura Olivier Philipponnat e Patrick Lienhardt. È una biografia densa di aneddoti, dati storici, incroci tra opere e interviste, una bella tensione di scrittura. Un libro-viaggio, La vita di Irène Némirovsky (Adelphi ne sta ripubblicando tutta l’opera), che con le sue pagine trascina attraverso tempo e spazio; e rende una presenza realissima il ritratto di questa giovane donna, che guarda dalla copertina del volume e che alla fine si vorrebbe come amica per l’ironia e la profondità appassionata. Tutto comincia a Kiev, a inizio ’900, in una Russia razzista percorsa da tensioni sociali e pogrom antisemiti. Il padre di Irène, Leonid Borisovic Némirovsky, è un uomo d’affari di successo, self-made man e “spirito selvaggio”, con due baffetti spavaldi alla Douglas Fairbanks e interessi dalla Siberia a Parigi. Anna Margulis, sua moglie, è una donna intelligente, non bella ma determinatissima a una vita lussuosa, da trascorrere tra la capitale francese e la Costa Azzurra, alla maniera dei ricchi russi dell’epoca. Entrambi i genitori ispireranno a Irène personaggi cruciali per i suoi romanzi. Leonid che sembra condannato ad accumulare ricchezze come riscatto sociale e non ha risolto il rapporto con le proprie radici ebraiche. Anna che, dal canto suo, è avida di mondanità, coltiva la propria immagine e la cultura francese, egoista e anaffettiva, interessati agli amanti e avara d’amore verso la figlia, lasciata in custodia a tate e istitutrici. Così la piccola Irina (solo dopo l’arrivo in Francia nel 1920, occidentalizzerà il nome in Irène), nasce da questa alchimia di esistenze, sensibile ma frustrata negli affetti. Ha gli occhi neri e languidi della madre, la grande bocca del padre. Fin da piccola legge moltissimo - Stendhal, Maupassant, Huysmans - parla perfettamente varie lingue, frequenta poche amiche. E si annoia. Una rappresaglia antiebraica dà il via al lungo peregrinare dei Némirovsky, nel 1911. Eccoli quindi a San Pietroburgo, con Leonid al culmine della fortuna economica e Irène ostile alla madre. “A pensarci”, scriverà molti anni dopo, “non mi sorprende che mi sia rimasta tutta la vita quella paura, quel senso di insicurezza e di minaccia... non si dimentica mai il gusto di certe lacrime...”. Il nucleo emotivo dei romanzi di Irène risale a questi anni. Agli incontri politici e di lavoro del padre, ai tradimenti materni, alle lunghe estati sul Mar Nero e a Nizza, alla rimozione delle ascendenze del mondo yiddish, che soprattutto Anna Margulis detesta. Intanto la Rivoluzione d’Ottobre scompagina le carte e, in fuga dal paese in fiamme, c’è il traumatico passaggio della famiglia in Finlandia e Svezia: qui vedono la luce i primi tentativi letterari di Irène. Finché, con la diaspora di 150 mila russi in Francia, i Némirovsky arrivano a Parigi. Qui, a tutti gli effetti, comincia la seconda vita della futura scrittrice. È particolarmente riuscita nella biografia questa prima parte dove, in diretta, si assiste al formarsi della sua personalità. Le sofferenze affettive e gli abbandoni dei luoghi cari che, nella distanza geografica e degli anni, diventano location per la narrazione. E poi il retroterra ebraico, che continua ad avere un forte peso. Gli Anni ‘20 sono per Irène quelli della sregolatezza sulle note del jazz, con un flirt dopo l’altro come vendetta nei confronti della madre. Una ribellione che però si spenge nel 1924, quando s’impegna all’Università e comincia a scrivere seriamente. D’estate, frequenta Biarritz e assiste a “lo spettacolo di tutti quei fannulloni squilibrati e viziosi, di tutto quel mondo eterogeneo di finanzieri... di donne alla ricerca del piacere...”. Si va accumulando la materia per uno dei suoi romanzi più intensi, David Golder: ascesa, fasti e caduta di un tormentato banchiere ebreo, evidentemente ispirato al padre. Ma Irène avrà la capacità di approfondimento psicologico, intreccio esperto, stile crudo, per scampare da banali autobiografismi. Intanto ha sposato Michel Epstein, giovane impiegato di banca, originario di Mosca e ha pubblicato i primi racconti e romanzi. Ma è in Golder, pubblicato nel dicembre del 1929, che decolla il successo e la fama di questa romanziera anomala, poco incline all’autocompiacimento, per la cui opera si evocano Tolstoj e Balzac. La figura di Golder non manca di dividere. Da una parte gli antisemiti ravvisano in quel “re dell’oro e del petrolio” la vecchia, solita avidità ebraica. Dall’altra, anche i giornali della Comunità israelitica francese lamentano che il libro ripeta e ravvivi i soliti, odiosi stereotipi. Sono - gli Anni ‘30 - quelli della creatività e del riconoscimento pubblico, persino dei film tratti dai romanzi di Némirovsky. Per citare i libri più riusciti, Come le mosche d’autunno, L’affare Kurilov, Il vino della solitudine. Lei scrive di continuo. Si documenta. Ma anche osservazioni e minimi episodi di cronaca fanno cortocircuito con la memoria, innescando trame per racconti o forme più lunghe. Dopo una prima stesura, raffina con scrupoloso lavoro di lima. Ha talento: un dono per plasmare protagonisti indimenticabili e una lucidità nella descrizione dei sentimenti e delle illusioni umane. Intanto Leonid-Léon, il padre-personaggio muore consumato dalla sua lotta con la vita, vita di vittorie e rovesci economici, come di tormenti interiori. Lascia a Irène circa 600mila franchi oro, insufficienti per il tenore di vita a cui è abituata. I rapporti con la madre sono ormai inesistenti: “La chiamavo signora. Non mi ha mai dato un bacio sulla fronte”, ricorda. In parallelo, peggiorano le condizioni degli ebrei: prima in tutt’Europa, quindi in Francia. Nel 1936, Hitler muove col suo progetto di supremazia continentale. Irène lavora moltissimo (9 romanzi e 38 racconti tra il 1935 e il 1942; più dei brogliacci narrativi - uno è chiamato Mostro - che restano in incubazione a lungo e da cui attinge per opere organiche o che usciranno solo postume). È lei che mantiene - con pubblicazioni, recensioni, sceneggiature - la famiglia, con Denise, nata nel 1929 e Élisabeth, nel 1937. Ormai esponente della comunità letteraria, la stampa antisemita la bersaglia anche quando non scrive di ebrei, assimilandola ai “rivoluzionari israeliti”. E gli sforzi per ottenere la cittadinanza francese, nonostante la fama, falliscono. Come in un contrappasso - mirabile ai fini delle creazioni, pessimo per la posizione sociale - i suoi libri si concentrano ed esplorano l’ambiente ebraico (I cani e i lupi). “Francese per indole..., ebrea russa per nascita..., Iréne Nèmirovsky vive un doppio esilio”, si sintetizza nella Vita. È a questo punto, tra il 1938 e il ’39 che avviene una svolta cruciale: con tutta la famiglia si converte al cattolicesimo. Tentativo di acquistare meriti religiosi in una situazione sempre più ostile alle sue origini o che altro? Un passaporto per la naturalizzazione francese? Di fatto Iréne, negli ultimi tre anni, non cambia granché la propria attitudine esistenziale. In ristrettezze, con l’invasione nazista della Francia si trasferisce in Borgogna. E, mentre sotto Pétain gli ebrei sono platealmente discriminati, compone i capolavori della maturità, I doni della vita, Suite francese, Il calore del sangue. Racconta la borghesia francese e si sofferma sul tema dell’impulsività come affascinante meccanismo che fa deviare i personaggi dal proprio destino. “Alla sconfitta l’istinto umano oppone invincibili barriere di speranza”, azzarda Irène. Ma nel 1941 subisce il blocco dei beni, imposto dai tedeschi agli editori che pubblicano autori ebrei. È la maledizione della stella gialla che arriva anche nella sonnolenta provincia di Issy-l’Évêque, dove adesso abita. Sono senza speranza gli appelli agli amici letterati come Paul Morand, per un aiuto; né l’aver abiurato all’ebraismo le evita la deportazione. Di lei, su un convoglio piombato con destinazione Polonia, si perde traccia a metà del luglio 1942. “Sì, ho avuto una vita già parecchio movimentata”, dice in una rara, profetica intervista del 1931. “La Russia, la Svezia, l’Europa centrale... e Parigi... si potrebbe ricavarne una sceneggiatura ricca di avventura...”. La fine del “suo” romanzo coincide con l’Olocausto. Per Irène come per Etty Hillesum, per Felice Schragenheim, per Selma Meerbaum Eisinger, protagoniste della stagione d’oro in cui esplode il genio femminile ebraico, resta ancora oggi incalcolabile ciò che ci ha portato via la Shoà, se solo pensiamo a che cosa questi giovani talenti letterari avrebbero ancora potuto dare al mondo.Mauro Querci http://www.mosaico-cem.it/

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