Il Giornale, 26 aprile 2010 di Fiamma Nirenstein
A coloro che spesso suggeriscono che bisogna parlare con Hamas, che l’organizzazione palestinese essendo stata eletta dal popolo ha una sua legittimità, che Gaza è ingiustamente bloccata, suggeriamo innanzitutto di dare un’occhiata al cartone animato messo in circolazione ieri da Hamas: a quasi quattro anni dal sequestro, parla del soldato di leva Gilad Shalit. Hamas immagina, dopo aver mostrato il tragico peregrinare del padre Noam da un presidente all’altro con la foto del figlio in mano, che Gilad gli sia riconsegnato, sì, ma in una bara coperta dalla bandiera israeliana. Noam, tradito e disperato grida «no!» quando si vede recapitare il suo feretro. Il cartone dura tre minuti, la colonna sonora è la voce vera di Gilad, piana e sommessa come la si sentì durante il video che alcuni mesi fa lo mostrava vivo dopo il sequestro. Il cartone vuole essere un’arma di pressione dopo lo stallo della trattativa in cui si ipotizzava la consegna di mille prigionieri circa in cambio di Shalit. Israele rifiutò tuttavia qualche nome troppo insanguinato, e pose la clausola che alcuni prigionieri liberati sarebbero stati dislocati fuori dai confini israeliani e del West Bank. Di Noam e sua moglie, la cui campagna ha raggiunto anche Roma (dove Shalit è cittadino onorario) sono noti i toni quieti che suscitano l’ammirazione di tutto il mondo. È incredibile a una mente normale che si possa sfotterlo e usarne l’immagine per minacciarlo della morte del figlio se non porta a casa l’accordo. Noam ha risposto lamentando la manipolazione orribile. Proprio la sofferenza della famiglia, insieme a Gilad stesso, diventa col film di Hamas l’oggetto del più audace cinismo. Noam viene mostrato ormai vecchio: si appoggia a un bastone e si trascina davanti ai ritratti dei crudeli primi ministri israeliani (Olmert, Netanyahu); trova in una pattumiera un giornale su cui si offrono 50milioni dollari per notizie sul figlio, e subito sotto appare, che ironia acuta! l’offerta di 10 milioni per informazioni su Ron Arad, il pilota che è stato inghiottito nel nulla durante la prima guerra del Libano. La sua unica penosa foto in prigionia tormenta l’inconscio collettivo di Israele quanto l’immagine del ragazzino Gilad, magro, pallido, con un sorriso impaurito mentre si rivolge ai suoi e prega di liberarlo. Alla fine del video fra ambulanze e macchine blindate, viene recapitata al padre la bara di Gilad. Non gli viene in mente, che strano, che gli assassini comunque sarebbero loro.È uno dei tanti festival della morte di Hamas, una totale assenza dai codici di civilizzazione di cui tuttavia non vogliamo saper niente. Bernard Lewis, il maggior storico del Medio Oriente, dice che è una forma di razzismo. Solo così si spiega il generale silenzio sull’altra novità di Hamas, ovvero la fucilazione la settimana scorsa di due «collaborazionisti», Mohammed Ismail e Nasser Abu Freh. Altri otto condannati aspettano. L’accusa di collaborazionismo è stata causa in tutto il mondo palestinese di centinaia di uccisioni, di torture, di linciaggi. Ora però è la prima volta, da quando tre anni fa Hamas prese il potere a Gaza che è stata resa effettiva la condanna a morte. La legge palestinese prevede che il presidente, cioè Abu Mazen, debba ratificarla. Ma a Gaza, la pena di morte è una prosecuzione del costume locale. Hamas durante la guerra precipitò persone dai tetti, uccise negli agguati anche i bambini; il gruppo si è liberato di altri oppositori fucilandoli davanti a una moschea; è rifornito e armato dall’Iran; non ha mai permesso alla Croce Rossa di vedere Shalit; perseguita e uccide i cristiani di Gaza. E, nonostante atti continui contro i diritti umani e la conferma della linea totalitaria, anticristiana e antisemita, gode di aiuti internazionali. La Comunita Europea visita Gaza, le Ong formano squadre di soccorso. Proprio in questi giorni parte dalla Turchia una convoglio di navi per salvare Gaza. Non si sa chi salverà il mondo dall’odio che ne promana.
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