giovedì 7 aprile 2011



Blackfield, il ‘campo nero’ del ‘dna’ artistico Si dice spesso che il primo disco di una band sia una sorta di sfogo per tutto il tempo passato nel tentativo di approdare in una qualunque sala di registrazione, che il secondo appartenga più ad una fase di assestamento delle idee e di sperimentazione di una serie di sonorità da poter provare ad intraprendere. E si dice, quindi, che il terzo disco sia la prova di maturità definitiva, il disco della definizione, quello in cui devi decidere una volta per tutte cosa vuoi fare e come lo vuoi fare, il suono che vuoi avere, i concetti che vuoi esprimere. Questo vale per chiunque, si direbbe, e sostanzialmente corrisponde a verità. Ma non nel caso di una band come i Blackfield, composta com’è da due eccezionali artisti che di maturità ne hanno già sentito parlare fin troppo almeno una decina di anni fa e, sinceramente, di un discorso simile, ne fanno una bella insalata ben condita e decorata. Per Aviv Geffen e Steven Wilson, infatti, giunti, appunto, al terzo disco insieme sotto l’etichetta Blackfield, “maturità” è un termine postdatato a tutti gli effetti essendo l’uno, già da diversi anni, una importante ed amatissima pop star in Israele, la sua terra madre, e l’altro iperconosciuto ai palati più fini di un certo tipo di rock più o meno progressivo per le sofisticate e meravigliose creazioni dei Porcupine Tree su vastissima scala (dalle sperimentazioni elettroniche dei primi anni ‘90 al perfetto hard rock progressive recente). Nato come progetto collaterale di Geffen e Wilson, i quali hanno condiviso le proprie idee in ambito esclusivamente melodico (partendo forse dalla svolta canzone proprio dei Porcupine Tree di Stupid dream e Lightbulb sun, anche se la vena melodica non è mai mancata in Wilson), la band ha acquistato una forma tangibile da sette anni a questa parte e sembra essere diventato un progetto tra i più importanti per entrambi i membri fondatori. Maturità, dunque: termine assolutamente fuori luogo se si considera che già l’esordio omonimo del 2004 presentava brani di una intelligentissima sostanza strofa-ritornello-strofa-ritornello. Eppure, si percepisce qualcosa in più rispetto ai precedenti due lavori già comunque sofisticati e raffinati nella loro capacità di distribuzione di note e versi. Ed ecco allora che, in questo nuovo splendido lavoro, la strada da intraprendere non poteva essere altro che quella della maggiore sostanza degli arrangiamenti e della distribuzione sia spaziale che, soprattutto, emotiva del suono, essendo il materiale a disposizione perennemente perfetto per un duo straripante di idee mai ripetitive, mai noiose e assolutamente mai scontate pur nella loro semplicità (nonostante soprattutto Wilson sia una sorta di macchina produttiva con ancora altri progetti collaterali come No-man, I.E.M e Bass Communion, in perenne ondulazione tra elettronica minimalista e cantautorato ancora più languido e riflessivo). Welcome to my dna, dunque, registrato in andirivieni tra Inghilterra e Israele, si apre proprio con l’innovazione principale, ovvero la presenza di archi reali e non più campionati (fortemente voluti soprattutto da Geffen) sia nella iniziale e pinkfloydiana Glass house che per il resto del disco lungo tutta la sua durata (una quarantina di minuti circa). Tra riflessioni intimiste, oscure, desolanti seppur nella loro ragionevolezza (“Forse sono libero ma se sono libero vuol dire solo che mi sono perso”), il disco procede con passo felpato tra i meandri delle sensazioni umane più innocenti e, al contempo, pungenti attraverso una capacità di assimilazione complementare di note e parole assolutamente perfette nel conferimento del senso più etereo ma ugalmente palpabile con il tatto della comprensione reciproca tra artista e ascoltatore. Si parla, infatti, di temi universali nella pur minimale e diretta Go to hell e nella soave Rising of the tide, mentre il primo singolo Waving introduce meglio il discorso degli arrangiamenti sinfonici, vera e propria amplificazione sensoriale per l’udito di chi ascolta seppure in un brano dal taglio più “allegro” e movimentato. Far away, invece, presenta la dote di una melodia prossima al divino, miscelata a concetti di vita, stasi e morte affrontati con una caparbietà antifilosofica a dir poco necessaria (si veda la citazione precedente) e contenente quegli impulsi di ineluttabilità tematica che contraddistigue gli argomenti affrontati dalla band in ogni singolo tratto di spartito. Ma è la successiva Blood ad innalzarsi a paladino della sperimentazione innovativa, forte com’è di un testo composto da un solo verso e basato (in termini di metafora morale sulla violenza del pianeta) su una serie di riff gravemente rock coadiuvati, però, da un tappeto di suoni etnici di rara bellezza e perfezione in un contesto sonoro distorto. On the plane, Zigota e DNA proseguono il discorso melodico riflessivo ma si percepisce, scorrendo l’intero disco senza interruzioni, la continua ricerca della canzone perfetta che, con molta probabilità, arriva con Oxygen (forse il brano migliore del disco), insieme di rabbia, rassegnazione e desolazione su continui e alternati cambi melodici di un impatto emotivo assoluto (dovuto anche e, forse, soprattutto alla ancestrale voce femminile che fa da perfetto tratto di unione con le già perfettamente simbiotiche melodie intonate da Geffen). Siamo di fronte ad un disco imperdibile. Certo, non si tratta di una novità assoluta vista la sostanza di chi l’ha prodotto (solo Wilson compie 44 anni a novembre e vanta una miriade di produzioni precedenti). Forse è proprio questa l’unica obiezione alla nostra volontà di parlarne. Ma di una cosa si può essere certi: si tratta di un fondamentale libretto di istruzioni per i posteri, per chi vorrebe tradurre in melodia la propria persona, il proprio modo di essere. Potrebbe essere questo uno dei motivi per cui Geffen e Wilson continuano a produrre insieme: lasciar percepire alle nuove generazioni, una sorta di strada maestra per fare di un certo passato (il loro come quello della forma canzone) un futuro plausibile. 5 aprile http://www.wakeupnews.eu/

Nessun commento: