venerdì 13 maggio 2011



La parola e il braccio
Cosa ha permesso a Israele, nonostante tutto, di vivere, crescere, prosperare, fino al traguardo di questo 63° anniversario di Indipendenza? Chi bisogna ringraziare per la prodigiosa rinascita del popolo ebraico, che, nonostante i tanti Amalek della storia, è riuscito a riaccendere, nella propria terra, una “luce per tutte le nazioni”? Occorre dire grazie, in primo luogo, ai rabbini, ai poeti, ai sognatori, ai sarti, agli straccivendoli, ai folli che hanno permesso all’ebraismo di tramandare la propria anima, attraverso secoli di esilio, in mille città, villaggi e shtetl, fino a consegnarla, nei tempi moderni, ai realizzatori del sogno sionista? O il primo ringraziamento va tributato a tutti i combattenti che, su mille fronti - tra le mura del dal ghetto di Varsavia come tra le fila dell’esercito britannico o di Tsahal – hanno affermato con la forza la volontà di vita e di resistenza – contro tutti, nonostante tutto – del popolo del libro? Il mondo, si sa, ama i primi, non i secondi. Ama la parola ebraica, non il braccio che le permette di esistere, di essere pronunciata. Eppure, spesso sono stati gli stessi poeti, cantori, musicisti a impugnare le armi, affinché il messaggio affidato alla loro arte non fosse spento, soffocato per sempre. Fra i tanti, in questo 63° Yom ha Azmaùt, ricordiamo la luminosa figura del grande poeta guerrigliero lituano Avrom Sutskever: catturato dai nazisti, costretto a scavare la fossa ove, una volta fucilato, sarebbe stato seppellito il suo cadavere, Sutzkever vi si gettò nello stesso istante in cui l’ufficiale diede ordine di sparare, precedendo di un attimo la raffica e riuscendo, così, a essere colpito in modo non letale. Sepolto vivo, riuscì a respirare sotto terra, economizzando l’aria, e a sopravvivere. Uscito dalla fossa, diventò comandante di una brigata di partigiani ebrei, affrontò e sconfisse i nazisti in mille scontri, in una spericolata tattica di guerriglia, trovando rifugio nei boschi, dopo avere colpito, per poi tornare a colpire. Divenne un incubo per il nemico e, per i suoi, una leggenda vivente, tanto da essere prelevato dai russi, a conflitto in corso, e condotto a Mosca, per essere insignito del premio Stalin, che, però, rifiutò, preferendo tornare a combattere. Vinse la sua guerra, morì in pace, libero, giusto, sazio di giorni, il 20 gennaio del 2010, a 96 anni. E, tanto in pace quanto in guerra, restò sempre un poeta. In sua memoria, così come in memoria di tutti coloro che hanno difeso, con la parola e con le braccia, il diritto a esistere del popolo ebraico, come di tutti i popoli, ricordiamo una delle sue più toccanti poesie, scritta in yiddish, durante i suoi giorni di partigiano, intitolata Unter dayne Vaise Shtern, “Sotto le tue stelle bianche”:
Sotto le tue stelle bianche, tendimi la tua mano bianca.
Le mie parole sono lacrime, vogliono riposare nella tua mano.
Guarda, si offusca il loro scintillio, nel mio sguardo pieno di tenebra,
e non ho nessun posto dove poterle restituire.
Ma, Dio di fede, io voglio affidarti il mio bene,
perché c’è un fuoco dentro di me e, nel fuoco, i miei giorni.
Nelle cantine e nelle fosse, piange la quiete assassina.
Corro in alto, sopra i tetti, e cerco: dove sei, dove?
Mi seguono stranamente scale, corti, lamenti.
Pendo come una corda strappata e canto così per te:
sotto le tue stelle bianche, tendimi la tua mano bianca.
Le mie parole sono lacrime, vogliono riposare nella tua mano.
Francesco Lucrezi, storico,http://www.moked.it/

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