giovedì 9 febbraio 2012


La sposa siriana, una storia di confine

Si sono conosciuti nel 2001 tra banchi e aule dell’Università di Damasco. Lui, 20enne, timido e un po’ imbranato. Lei, prossima ai 18, sicuramente più estroversa e con fama diffusa di heartbreaker. Entrambi drusi, diversi nel carattere e nelle esperienze di coppia ma accomunati dalla medesima matrice culturale, sociale e religiosa. La freccia di Cupido fa il suo dovere centrando in pieno il bersaglio tanto che gli amici immediatamente profetizzano la nascita, di lì a poco, di un consorzio indissolubile. Un legame per l’eternità, nella buona e nella cattiva sorte, che è stato finalmente affermato dai due sull’altare. Ma quante sofferenze per portare avanti la battaglia degli affetti, per vivere fianco a fianco gioie e difficoltà di una quotidianità condivisa. A contrastare i piani di sposalizio non sono stati però conoscenti accecati dalla gelosia o tendenti al pettegolezzo, crisi di coppia del settimo anno, tradimenti notturni. L’ostacolo è stato ben più arduo da superare. Un ostacolo chiamato precarietà dell’area mediorientale e in cui molti continuano a sbattere contro la testa ogni giorno. Facciamo un po' d'ordine: lui, Munjed, una volta completati gli studi torna tra le alture del Golan, regione settentrionale d’Israele tradizionalmente abitata dalla comunità drusa. Il rientro a casa segna il distacco da Mayada, che rimane a vivere da mamma e papà nel natio villaggio siriano. Una manciata di chilometri in linea d’aria ma sembra un’eternità, un macigno per la loro relazione: tra Siria e Israele, salvo rarissime eccezioni, i confini risultano infatti inagibili in un senso e nell’altro. Poche, pochissime le strade che è possibile percorrere per aprirsi un varco nel labirinto di check point, militari e filo spinato: tra queste il permesso universitario rilasciato dal governo siriano ai soli richiedenti di etnia drusa (agevolazione di cui lo stesso Munjed aveva beneficiato per i suoi studi) oppure la richiesta di passare dall’altra parte della barricata in ragione di “evidenti motivi umanitari”. In questo senso tra le opzioni accettate, comunque a fatica, le nozze tra cittadini drusi. E ciò in virtù dell’elevata percentuale di unioni tra correligionari (le uniche contemplate dal sistema legislativo siriano) che si verificano all’interno di questa plurisecolare e affascinante comunità. Mayada e Munjed, protagonisti di un lungo e sofferto percorso di avvicinamento alla meta, non hanno mai avuto dubbi: questo matrimonio s’ha da fare. Mayada la sposa siriana, quindi, parafrasando un celebre film di Eran Riklis (anche se nella narrazione del regista israeliano Mona, la protagonista, compie il percorso in direzione opposta: dal Golan alle braccia di un attore siriano). Ma anche Mayada la donna coraggiosa che in nome dell’amore lascia alle sue spalle, forse per sempre, il calore di familiari e amici. Perché il dolore più intenso, per le Syrian Brides (ad oggi si è arrivati a contarne alcune decine), è proprio questo. Un crudele baratto dei sentimenti: perché sei libera, puoi sposarti, ma sappi che non si torna indietro. O di qua o di là. Da noi o da loro. “Sono stati anni difficili e frustranti. Oggi io e mio marito coroniamo un sogno, anche se il prezzo da pagare è molto alto” spiega Mayada al reporter del Jerusalem Report, tra i primi giornalisti ad incontrarla nella terra di nessuno posta tra i due confini. Pochi istanti e la ragazza, oggi 27enne, avrà l’anello al dito. Il matrimonio - lei in bianco tradizionale, lui con giacca nera e cravatta - si celebra infatti in quella insolita cornice. È l’unica occasione, la più lieta e allo stesso tempo la più sofferta, che i parenti degli sposi possono trascorrere assieme ai neo congiunti. Un paio di ore, anche qualcosa di meno, tra sorrisi e lacrime. Conclusa la cerimonia si torna a casa. Gli sposi salutano nel pianto. È un matrimonio, è il giorno più bello, ma fa anche tanto male.Pagine Ebraiche, febbraio 2012

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