martedì 16 ottobre 2012
Tea for Two - Come eravamo
Il mio obiettivo, una volta
finite momentaneamente le fatiche universitarie, era uno solo: tirare
fuori l'impolverato libro di cinematerapia acquistato in tempi non
sospetti. E seguendo pedissequamente il primo capitolo dall'eloquente
titolo Film da vedere tra pianto torrenziale e furia omicida, ecco le
istruzioni: guardare Come eravamo. Da anni mi preparavo a questo
lungometraggio, il padre di innumerevoli nastri dedicati agli amori
infelici, non corrisposti e jellati fin dai titoli di testa. Carrie
Bradshaw e le sue discepole lo usano come antidoto al mal d'amore,
antidoto e veleno. Come eravamo, ha fondamentalmente quattro
protagonisti: Barbra Streisand, Robert Redford, il naso di Barbra
Streisand e i capelli di Robert Redford. Inserito il vhs (meravigliosi,
vintage vhs, con nastri che si impigliano nel registratore e righe
bianche comprese), non avevo preso l'atto con la giusta serietà e
canticchiavo stonando la hit di qualche anno fa dei Duck Sauce
(uhuhuhuh Barbra Streisand). Mi sono addirittura alzata più volte per
rifornirmi di provviste mentre Katie/Barbra rimproverava qualcuno
dicendo che era il ritratto della decadenza. Ma la mammoletta che
dimora in me fin dai tempi dei cartoni Disney, non ha esitato ad uscire
fuori e mi sono trovata impelagata in questa storia struggente.
Struggente perché non ci lascia le penne nessuno come nell'ospedaliero
Love story o nei film tratti dal 'lialoso' Nicholas Sparks. Struggente
perché l'amore non è eterno e si scioglie inesorabilmente come neve al
sol. La trama è nota ai più: da igloo alle palafitte, da una zattera in
mezzo al mare a una penthouse di New York. Katie/Barbra potrebbe
tranquillamente essere la figlia naturale di Karl Marx e Rosa
Luxemburg, rossa quanto il vestito di Jessica Rabbit, fa comizi
universitari per risvegliare le coscienze, ha una cotta per Roosvelt e
il ritratto di Lenin nel suo appartamentino da donna emancipata.
Ovviamente è ebrea, come specificano tutti i dizionari dei film e suo
papà, al quale ha promesso di chiamare una eventuale figlia Rachele.
Hubbel (un nome che riecheggia il viscido Humbert Humbert di Lolita) è
biondissimo, bel visetto, mago degli sport: insomma basti dire che è
Robert-occhi da orsacchiotto- Redford. Uno di quelli che gli americani
adorano definire WASP. Ama la bella vita, le ragazze shallow (frivole e
poco impegnative) e scrive romanzi senza per questo essere engagé. Come
da copione, Katie non resiste e perde di vista i suoi ideali pur di
sistemargli i capelli biondo nuance 'Brad Pitt a inizio carriera'.
Hubbel fa il vago, indossa la sua divisa e vuole semplicemente poter
azionare e spegnere la verbosa Katie a seconda dei momenti, se è in
vena di predicozzi comunisti o se vuole farsi un drink e deridere
Eleonor Roosvelt con la sua manica di amici ricchi e vuoti quanto una
pancia all'ora di Ne'illà. Lei si strugge, lui è evasivo. Lei
indossa completi anni '70, lui tenute da tennis. Lapalissiana la
conclusione: "La verità, cara Katie, è che non gli piaci abbastanza,
peccato perché saresti stata la rivalsa per tutte noi che ti adoriamo
anche per il tuo naso che ti rende ancora più affascinante". Allora è
giunto il momento, non si può fare altro se non cantare The way we
were, precursore delle canzoni di Adele, mentre le lacrime cadono giù
come rolling stones. La cosa più divertente è che Redford/Hubbel rimane
sorpreso constatando come Katie sia sopravvissuta alla cocente
delusione. Come ogni uomo, animale alle volte piuttosto elementare, è
basito nel vederla ancora in piedi, con un nuovo taglio di capelli e la
forza negli occhi di una che non lo chiamerà più in singhiozzi
farneticando scuse per non lasciarlo andare. Grazie Katie, vai al
diavoloHubbel.Oops.Rachel
Silvera, studentessa –twitter@RachelSilvera2http://www.moked.it/
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