lunedì 18 febbraio 2013
In cornice - Il Nabucco di
Daniele Abbado
Basare
la scenografia di un “Nabucco” su continui richiami alla Shoah, rischia
di finire in un flop. È già accaduto. Ma Daniele Abbado, regista
dell’edizione ora in scena a La Scala, si è mosso con intelligenza,
senza utilizzare simboli abusati o troppo evidenti, ma basandosi su
elementi più profondi e in parte nuovi. Il pubblico ha applaudito a
lungo Abbado e credo che il suo messaggio rimarrà più inciso nella
mente degli spettatori, proprio perché Abbado li ha lentamente attirati
dalla sua rete. Ad esempio, non ha vestito i personaggi con pigiami a
righe o con uniformi naziste, ma piuttosto con vestiti della media
borghesia mitteleuropea degli anni ’30. Niente di troppo appariscente,
ma nei momenti topici ecco apparire i bambini vestiti con pantaloncini
corti e con baschi di colore scuro. Non hanno alzato le braccia come
nella celebre foto dal ghetto di Varsavia, ma il parallelo era
evidentissimo. Mi ha poi colpito il modo in cui Abbado ha ricreato le
colonne del Tempio di Gerusalemme: senza cercare alcuna ricostruzione
storica, ha optato per dei parallelepipedi scuri, lisce, simili ai
blocchi di granito senza nome del Museo della Shoah di
Berlino
pensato da Libeskind e del Memoriale degli ebrei assassinati d’Europa
creato da Eisenmann sempre nella capitale tedesca. Così, quando il
Tempio viene distrutto, è come se fosse la memoria cadesse e rischiasse
di scomparire, salvo poi ritornare in parte in piedi. Non so chi abbia
colto questa sfumatura: è però importante notare che grazie alle opere
di grandi architetti come Libeskind ed Eisenmann, il patrimonio dei
simboli associati alla Shoah si stia espandendo, colpendo prima gente
come Abbado e poi altri. È dimostrazione evidente che l’arte è
fondamentale per mantenere vivo e rinnovare il ricordo della tragedia
che abbiamo subito dai nazisti.Daniele
Liberanome, critico d'arte,http://www.moked.it/
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