
C’è
un’immagine, la pagina di un piccolo libro, che tutta Israele porta
impressa nelle esperienze infantili della memoria condivisa. Quella di
Hannaleh e dei suoi vestiti dello Shabbat. La bimba di quattro anni che
si ferma lungo la strada per aiutare un vecchio carbonaio a trascinare
il suo fardello, i vestiti che finiscono irrimediabilmente per
macchiarsi e sono infine resi più splendenti di prima dai raggi della
luna e dalla carezza delle stelle capaci di salvare la situazione.
Israele aveva da poco conquistato la propria indipendenza al prezzo di
una guerra e di durissimi sacrifici. I suoi bambini erano il tesoro e
l’orgoglio di una società alla disperata ricerca di un futuro lontano
dagli orrori delle persecuzioni e della Shoah, quando il libro I vestiti
dello Shabbat di Hannaleh apparve per la prima volta nelle librerie.
Divenuto subito il titolo di punta delle celebre collana per l’infanzia
delle edizioni Ofer, la storia raccontata da Itzhak Schweiger Dmi’el è
stata a lungo il libro per l’infanzia più diffuso in lingua ebraica.
Innumerevoli generazioni, dai nonni, ai genitori, ai piccoli lettori, lo
hanno visto come un luogo del pensiero intimo e confortante. Niente di
strano, per chi ha conosciuto la forza dei sogni, la semplicità,
l’Israele dei grandi ideali. Ma oggi? Non è il disincanto, il
consumismo, l’eclisse degli grandi ideali sionisti, insomma il freddo
egoismo, a farla da padrone? Un libro così ingenuo, come si fa a
metterlo nelle mani dei bambini di un paese che dimostra tutto il
dinamismo e le dure contraddizioni di oggi? Quando si entra a
Gerusalemme al Museo di Israele e ci si dirige alla Ruth Youth Wing
Library che continua a proporre un programma intenso e prestigioso di
attività per i giovanissimi visitatori, la mostra dove Hannaleh torna
protagonista (Days of Innocence: Illustrator Eva Itzkowitz and the Ofer
Library, visitabile fino al 31 dicembre di quest’anno e curata da Orna
Granot) consente invece di rispondere a molti interrogativi proprio
sulla società israeliana attuale. Hannaleh, rigorosamente ristampato e
ben evidenziato nel catalogo della gloriosa casa editrice, è ancora il
più diffuso libro per bambini. E i visitatori di tutte le generazioni
che vengono a godersi l’esposizione non ci tengono a coltivare
sentimenti nostalgici. Preferiscono piuttosto chiedersi cosa è rimasto
vivo e cosa è profondamente mutato nella nostra maniera di vedere
l’infanzia e l’educazione. Ma soprattutto vogliono fare la conoscenza di
un’artista straordinaria, che con il proprio disegno ha popolato la
mente di chi è cresciuto con la lingua ebraica nel cuore. Lei, l’autrice
di Hannaleh e di tanti altri celebri libri per l’infanzia, per oltre
sessant’anni è entrata nelle menti di tutti, ha abitato sugli scaffali
di ogni casa, ha fatto ridere e piangere, ha liberato l’immaginazione,
senza mai dire il suo nome. Tutti i libri della collana Ofer per
l’infanzia riportano il nome degli autori dei testi, mai quello
dell’illustratrice. Per una sua modestia eccessiva, quasi un vezzo,
mentre Israele nasceva, cresceva, combatteva, sognava, ha preferito
rimanere nell’ombra. Immagini abbaglianti nella loro purezza e totale
silenzio sulla propria identità. Oggi, grazie proprio all’impegno dei
ricercatori del più autorevole museo di Israele, Eva Itzkowitz ha
deciso, compiuti i novant’anni, di lasciar cadere il velo e di rivelare
la propria identità. E la mostra vuole celebrarla, incontrarla di
persona, dirle grazie. Proprio con l’intento di incontrare l’autrice,
rivedere il suo lavoro paziente e lontano dai riflettori e rendere
omaggio alla madre dei propri sogni, tanta gente di tutte le età viene
ora a visitarla. Ci sono ovviamente molti giovanissimi lettori, ma anche
tantissimi adulti e ognuno a proprio modo ha da commentare, da
raccontarsi quale immagine, quale personaggio porta sempre vividamente
impresso nel cuore. La Itzkowitz non è stata, come qualcuno forse
avrebbe creduto, una fata disegnatrice, ma apprendiamo oggi che la sua
vita è stata segnata dalle vicende di molti ebrei della sua generazione.
Tedesca, nata nel Land di Sassonia nel 1922, in fuga dalle persecuzioni
già nel 1939, ha studiato disegno ad Atene, dove era riuscita a
rifugiarsi prima di raggiungere la Palestina del Mandato britannico nel
1945. I britannici avevano bloccato e respinto la famiglia che tentava
di raggiungere Israele negli anni del conflitto. Tornati ad Atene il
padre, morto nella Shoah, fu identificato e deportato dagli occupanti
nazifascisti. Eva, la madre e la sorella riuscirono a sopravvivere sotto
falso nome. Cominciata una nuova vita in Israele, il tratto della
disegnatrice anonima entrò in tutte le case e accompagnò la crescita
della nuova gioventù di un popolo intero nelle numerosissime
pubblicazioni per l’infanzia che la Ofer e altri editori diffusero fino
al 1975. Nessuno si chiese chi era veramente l’autrice, né pensò che si
trattasse di un’artista di prima grandezza. La mostra al Museo di
Israele rende ora giustizia al suo nome, ma anche alla sua arte. Orna
Granot, che dirige il centro di ricerche per l’infanzia in seno al museo
nazionale, ha fatto emergere nell’esposizione dei disegni originali il
tratto limpido, diretto, volutamente semplice. “C’è una bellezza –
afferma ora la Granot – in questa semplicità. Oggi i libri per
l’infanzia sono spesso strutturati per parlare agli adulti con un
linguaggio e ai bambini con un altro. Pongono problemi e pretendono di
risolverli. Allora non era così. Il messaggio era molto semplice, più
diretto e meno sofisticato”. Emerge ovviamente anche l’impostazione
ideologica che contrassegnava l’Israele di allora. Il tentativo di
indicare ai bambini un percorso di crescita per assumere un loro ruolo
nella società, raggiungere con fiducia le abilità dimostrate dai
genitori, identificarsi in un modello positivo. Tutti ideali che oggi
potrebbero forse far sorridere, ma che hanno sorretto e accompagnato
l’infanzia di numerosi bambini nati in famiglie spesso uscite da traumi
indescrivibili. Fedele alla tradizione culturale tedesca, il tratto
dell’autrice tradisce un’estetica iper ashkenazita che sembra estranea
alla multietnicità dell’Israele di oggi e riflette piuttosto la
tranquillizzante, asettica bellezza delle icone di bambini nordeuropei.
Attraverso una rilettura della sua opera è oggi consentito comprendere
lo sforzo immenso delle generazioni che ci hanno preceduto di
rielaborare gradualmente le loro identità di europei e di mediare fra la
codificazione estetica, il gusto occidentale e i nuovi impulsi di vita
che Israele a contribuito a moltiplicare nel corso della sua evoluzione
verso una società estremamente diversificata, complessa e talvolta
tumultuosa. Proprio nella sua apparente ingenuità, nella sua tenera
nostalgia, il lavoro della Itzkowitz ritrova, attraverso questa
rilettura nuova luce. E Israele riscopre l’emozione di dire grazie,
chiamandola per la prima volta con il suo vero nome, all’autrice di quel
tenero mondo incantato destinato a simboleggiare eternamente
l’immaginario dell’infanzia di un paese intero.Guido Vitale, Pagine Ebraiche,(18 marzo 2013)
Nessun commento:
Posta un commento