lunedì 18 marzo 2013

Hannaleh e l’innocenza d’Israele
C’è un’immagine, la pagina di un piccolo libro, che tutta Israele porta impressa nelle esperienze infantili della memoria condivisa. Quella di Hannaleh e dei suoi vestiti dello Shabbat. La bimba di quattro anni che si ferma lungo la strada per aiutare un vecchio carbonaio a trascinare il suo fardello, i vestiti che finiscono irrimediabilmente per macchiarsi e sono infine resi più splendenti di prima dai raggi della luna e dalla carezza delle stelle capaci di salvare la situazione. Israele aveva da poco conquistato la propria indipendenza al prezzo di una guerra e di durissimi sacrifici. I suoi bambini erano il tesoro e l’orgoglio di una società alla disperata ricerca di un futuro lontano dagli orrori delle persecuzioni e della Shoah, quando il libro I vestiti dello Shabbat di Hannaleh apparve per la prima volta nelle librerie. Divenuto subito il titolo di punta delle celebre collana per l’infanzia delle edizioni Ofer, la storia raccontata da Itzhak Schweiger Dmi’el è stata a lungo il libro per l’infanzia più diffuso in lingua ebraica. Innumerevoli generazioni, dai nonni, ai genitori, ai piccoli lettori, lo hanno visto come un luogo del pensiero intimo e confortante. Niente di strano, per chi ha conosciuto la forza dei sogni, la semplicità, l’Israele dei grandi ideali. Ma oggi? Non è il disincanto, il consumismo, l’eclisse degli grandi ideali sionisti, insomma il freddo egoismo, a farla da padrone? Un libro così ingenuo, come si fa a metterlo nelle mani dei bambini di un paese che dimostra tutto il dinamismo e le dure contraddizioni di oggi? Quando si entra a Gerusalemme al Museo di Israele e ci si dirige alla Ruth Youth Wing Library che continua a proporre un programma intenso e prestigioso di attività per i giovanissimi visitatori, la mostra dove Hannaleh torna protagonista (Days of Innocence: Illustrator Eva Itzkowitz and the Ofer Library, visitabile fino al 31 dicembre di quest’anno e curata da Orna Granot) consente invece di rispondere a molti interrogativi proprio sulla società israeliana attuale. Hannaleh, rigorosamente ristampato e ben evidenziato nel catalogo della gloriosa casa editrice, è ancora il più diffuso libro per bambini. E i visitatori di tutte le generazioni che vengono a godersi l’esposizione non ci tengono a coltivare sentimenti nostalgici. Preferiscono piuttosto chiedersi cosa è rimasto vivo e cosa è profondamente mutato nella nostra maniera di vedere l’infanzia e l’educazione. Ma soprattutto vogliono fare la conoscenza di un’artista straordinaria, che con il proprio disegno ha popolato la mente di chi è cresciuto con la lingua ebraica nel cuore. Lei, l’autrice di Hannaleh e di tanti altri celebri libri per l’infanzia, per oltre sessant’anni è entrata nelle menti di tutti, ha abitato sugli scaffali di ogni casa, ha fatto ridere e piangere, ha liberato l’immaginazione, senza mai dire il suo nome. Tutti i libri della collana Ofer per l’infanzia riportano il nome degli autori dei testi, mai quello dell’illustratrice. Per una sua modestia eccessiva, quasi un vezzo, mentre Israele nasceva, cresceva, combatteva, sognava, ha preferito rimanere nell’ombra. Immagini abbaglianti nella loro purezza e totale silenzio sulla propria identità. Oggi, grazie proprio all’impegno dei ricercatori del più autorevole museo di Israele, Eva Itzkowitz ha deciso, compiuti i novant’anni, di lasciar cadere il velo e di rivelare la propria identità. E la mostra vuole celebrarla, incontrarla di persona, dirle grazie. Proprio con l’intento di incontrare l’autrice, rivedere il suo lavoro paziente e lontano dai riflettori e rendere omaggio alla madre dei propri sogni, tanta gente di tutte le età viene ora a visitarla. Ci sono ovviamente molti giovanissimi lettori, ma anche tantissimi adulti e ognuno a proprio modo ha da commentare, da raccontarsi quale immagine, quale personaggio porta sempre vividamente impresso nel cuore. La Itzkowitz non è stata, come qualcuno forse avrebbe creduto, una fata disegnatrice, ma apprendiamo oggi che la sua vita è stata segnata dalle vicende di molti ebrei della sua generazione. Tedesca, nata nel Land di Sassonia nel 1922, in fuga dalle persecuzioni già nel 1939, ha studiato disegno ad Atene, dove era riuscita a rifugiarsi prima di raggiungere la Palestina del Mandato britannico nel 1945. I britannici avevano bloccato e respinto la famiglia che tentava di raggiungere Israele negli anni del conflitto. Tornati ad Atene il padre, morto nella Shoah, fu identificato e deportato dagli occupanti nazifascisti. Eva, la madre e la sorella riuscirono a sopravvivere sotto falso nome. Cominciata una nuova vita in Israele, il tratto della disegnatrice anonima entrò in tutte le case e accompagnò la crescita della nuova gioventù di un popolo intero nelle numerosissime pubblicazioni per l’infanzia che la Ofer e altri editori diffusero fino al 1975. Nessuno si chiese chi era veramente l’autrice, né pensò che si trattasse di un’artista di prima grandezza. La mostra al Museo di Israele rende ora giustizia al suo nome, ma anche alla sua arte. Orna Granot, che dirige il centro di ricerche per l’infanzia in seno al museo nazionale, ha fatto emergere nell’esposizione dei disegni originali il tratto limpido, diretto, volutamente semplice. “C’è una bellezza – afferma ora la Granot – in questa semplicità. Oggi i libri per l’infanzia sono spesso strutturati per parlare agli adulti con un linguaggio e ai bambini con un altro. Pongono problemi e pretendono di risolverli. Allora non era così. Il messaggio era molto semplice, più diretto e meno sofisticato”. Emerge ovviamente anche l’impostazione ideologica che contrassegnava l’Israele di allora. Il tentativo di indicare ai bambini un percorso di crescita per assumere un loro ruolo nella società, raggiungere con fiducia le abilità dimostrate dai genitori, identificarsi in un modello positivo. Tutti ideali che oggi potrebbero forse far sorridere, ma che hanno sorretto e accompagnato l’infanzia di numerosi bambini nati in famiglie spesso uscite da traumi indescrivibili. Fedele alla tradizione culturale tedesca, il tratto dell’autrice tradisce un’estetica iper ashkenazita che sembra estranea alla multietnicità dell’Israele di oggi e riflette piuttosto la tranquillizzante, asettica bellezza delle icone di bambini nordeuropei. Attraverso una rilettura della sua opera è oggi consentito comprendere lo sforzo immenso delle generazioni che ci hanno preceduto di rielaborare gradualmente le loro identità di europei e di mediare fra la codificazione estetica, il gusto occidentale e i nuovi impulsi di vita che Israele a contribuito a moltiplicare nel corso della sua evoluzione verso una società estremamente diversificata, complessa e talvolta tumultuosa. Proprio nella sua apparente ingenuità, nella sua tenera nostalgia, il lavoro della Itzkowitz ritrova, attraverso questa rilettura nuova luce. E Israele riscopre l’emozione di dire grazie, chiamandola per la prima volta con il suo vero nome, all’autrice di quel tenero mondo incantato destinato a simboleggiare eternamente l’immaginario dell’infanzia di un paese intero.Guido Vitale, Pagine Ebraiche,(18 marzo 2013)

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