venerdì 3 settembre 2010


1956: kibbutz Sdot-yam

Qualche riflessione sugli ennesimi “colloqui di pace”

Dato che si sa ma nessuno osa dirlo, qualcuno dovrà pure decidersi a farlo…
La settimana prossima si riuniranno negli USA israeliani e palestinesi, finalmente di nuovo gli uni di fronte agli altri. Ma con quali speranze? Di mettere fine a un conflitto che dura da un secolo? Certamente no. L’unico obiettivo immediato che si può ravvisare è quello che sta a cuore al presidente americano: porre un freno al suo drammatico calo di consensi. Nell’impossibilità di modificare in fretta i parametri dell’economia, nell’incapacità di trovare una onorevole via di uscita ai conflitti che vedono schierati tanti soldati americani, Obama sembra aver pensato che una correzione (reale? duratura?) del suo atteggiamento verso Israele e verso il conflitto che l’oppone ai palestinesi sia l’unica speranza per salvare le oramai vicine elezioni di midterm.Abu Mazen sa bene di non avere alcun margine di trattativa di fronte alle offerte molto generose a suo tempo rifiutate da Arafat. Potrebbe egli accettare quanto Arafat ha rifiutato? Ed è immaginabile che un qualsiasi leader israeliano possa oggi offrire ancora di più? Anche a causa di questa realtà non è mai stato possibile trovare una base da cui partire per la riapertura dei colloqui diretti. Ma esaminiamo meglio i termini della questione.Innanzitutto guardiamo ai negoziatori palestinesi: Abu Mazen non ha titolo alcuno per firmare alcunché, dato che i termini della sua presidenza sono scaduti da lungo tempo; inoltre la sua leadership è contestata da larga parte della sua gente e, soprattutto, non ha mai goduto dell’autorità e del prestigio indispensabili per poter condurre qualsivoglia trattativa. E il suo primo ministro, pur abile nella gestione del governo, non gode di alcuna popolarità tra i palestinesi. Qualunque documento da loro sottoscritto sarebbe contestato dai capi arabi. Se si pensa al rifiuto opposto dalla Lega araba agli accordi firmati dal Presidente Sadat, lui sì titolato a firmare quegli accordi, è difficile immaginare che un trattamento migliore potrebbe essere riservato ad un Abu Mazen che eventualmente firmasse un accordo di pace. Vale inoltre la pena di ricordare che anche l’Onu approvò ben due risoluzioni di condanna, il 6 e il 12 dicembre 1979, contro l’Egitto che aveva concluso con Israele una pace separata – cosa, allora come oggi, inevitabile dal momento che la quasi totalità degli stati belligeranti continuano a rifiutare qualunque ipotesi di negoziato e di accordo con Israele – e, addirittura, dichiarò nullo tale accordo (qui e qui i testi delle due risoluzioni). Nel 1994 anche la Giordania concluse una pace separata con Israele, e se non vi furono conseguenze negative, viene da pensare con un pizzico (forse) di cinismo, fu solo perché a togliere di mezzo re Hussein arrivò prima il cancro. Ricordiamo, per inciso, che nel frattempo, nell’ambito degli accordi di Oslo, era nata l’ANP, Autorità Nazionale Palestinese, teoricamente svincolata dall’obbligo statutario dell’OLP di perseguire la distruzione di Israele (qui la Costituzione di al-Fatah, sua principale componente), in realtà, in quanto emanazione dell’OLP, legata agli stessi vincoli.Alle considerazioni di carattere politico va poi aggiunto il fatto che l’islam vieta ai musulmani di stipulare veri e propri accordi di pace con i non musulmani (Dal Corano 5:51: "O voi che credete, non sceglietevi per alleati i giudei e i nazareni, sono alleati gli uni degli altri. E chi li sceglie come alleati è uno di loro. In verità Allah non guida un popolo di ingiusti" e 5:57: "O voi che credete, non sceglietevi alleati tra quelli ai quali fu data la Scrittura prima di voi, quelli che volgono in gioco e derisione la vostra religione e [neppure] tra i miscredenti. Temete Allah se siete credenti." “La fine dei giorni sopraggiungerà solo quando i musulmani uccideranno tutti gli ebrei. Verrà l’ora in cui il musulmano muoverà guerra all’ebreo e lo ucciderà, e finché vi sarà un ebreo nascosto dietro una roccia o un albero, la roccia e l’albero diranno: musulmano, servo di Dio, c’è un ebreo nascosto dietro di me, vieni e uccidilo” (Muslim, 2921; al-Bukhaari, 2926). E, sempre per al-Bukhaari: "per Allah, e se Allah vuole, se faccio un giuramento e successivamente trovo qualcosa migliore di quello, allora faccio ciò che è meglio e faccio ammenda per il giuramento."), divieto che, soprattutto in questi tempi, difficilmente i dirigenti palestinesi potranno permettersi di trasgredire.In queste ultime settimane ci sono state dure discussioni sull’opportunità di aprire le trattative con o senza precondizioni, ma gli americani sembrano non preoccuparsi di questi aspetti fondamentali, tutti tesi come sono a raggiungere il loro obiettivo, cioè superare le elezioni, e non certo preoccupati di raggiungere un accordo che anche loro sanno impossibile. Se Netanyahu riprendesse, alla scadenza dei 10 mesi di interruzione, le costruzioni sospese nei territori di Giudea e Samaria (e tralasciamo, in questo contesto, di occuparci di quelle di Gerusalemme, problema ancor più complesso e intricato), i palestinesi, hanno preavvertito, interromperebbero subito i negoziati. Ci si dovrebbe a questo punto domandare perché abbiano aspettato tanto a lungo prima di acconsentire a sedere allo stesso tavolo degli israeliani: la sospensione non era stata concessa proprio in risposta alle richieste palestinesi, come condizione preliminare per iniziare una trattativa? Di chi dunque la responsabilità se durante questi dieci mesi di sospensione le trattative non sono iniziate? Concediamoci tuttavia una botta di ottimismo e immaginiamo che i palestinesi non interrompano immediatamente le trattative e che queste partano regolarmente. Immaginiamo, giusto come ipotesi, che Netanyahu, ufficialmente o ufficiosamente, tenga ancora bloccate le nuove costruzioni. E immaginiamo anche che si arrivino a delimitare i territori che gli arabi, sconfitti nelle varie guerre che si sono succedute dal ‘48 in avanti, concederanno agli israeliani vincitori di quelle guerre (e già questo è un ben anomalo modo di procedere, quando da che mondo è mondo sono sempre state le potenze vincitrici a imporre le proprie condizioni). Ed infine immaginiamo ancora che Netanyahu non pretenda l’accettazione da parte palestinese di uno Stato di Israele che si definisca “stato ebraico” (cosa che Abu Mazen non potrebbe mai accettare, in quanto per l’islam qualunque terra che sia stata in passato islamica, fosse anche per un solo giorno, dovrà restare islamica per sempre).
A questo punto, se anche si fossero risolti gli altri problemi, ci si scontrerebbe sul problema dei profughi che il mondo, e l’ONU per prima, sta ignominiosamente tenendo aperto da 62 anni, concedendo quanto non ha permesso altrove, e quanto nessuna logica può giustificare. Quella stessa ONU ha avallato il trasferimento, nei medesimi anni del dopoguerra, di oltre 10 milioni di profughi tedeschi (non necessariamente colpevoli per i crimini del nazismo), di milioni di induisti cacciati dal Pakistan e di altri milioni di musulmani cacciati dall’India, e via via, seguendo la stessa logica, nelle varie aree di conflitto fino ai più recenti trasferimenti di popolazioni greche dalla Cipro occupata militarmente dalla Turchia, e delle varie etnie all’interno della ex Yugoslavia; tutti trasferimenti dettati dalla corretta logica di cercare, nelle varie nazioni, una omogeneità etnica e religiosa necessaria per creare condizioni di stabilità (qui un ricco e documentato articolo di Ben Dror Yemini sul tema). Israele non potrà mai accogliere quei milioni di uomini, donne e bambini che nessuno stato arabo vuole, che non sono mai vissuti in quelle terre, e che non potranno mai integrarsi nella civiltà israeliana anche a causa degli insegnamenti che, da sempre, sono stati loro impartiti dagli arabi e dagli occidentali (questi ultimi, non dimentichiamolo, per via degli enormi interessi in gioco). Se addirittura si applicassero le proposte fatte nel 2004 dall’allora segretario dell’ONU Kofi Annan per risolvere il problema dei profughi ciprioti, Israele, lungi dal doverne accettare di nuovi, dovrebbe espellere molti musulmani residenti nello Stato. Non vi è oggi spazio per trovare una soluzione a questo problema, dato il modo in cui è stato, fin dall’inizio, impostato e gestito, così come non ha potuto trovarlo il negoziatore Mitchell. E poi rimane ancora il problema di Gerusalemme, per la quale gli arabi rifiutano perfino di ammettere i legami storici che gli ebrei hanno con la città, atteggiamento che toglie ogni spazio residuo alla possibilità di una trattativa.Qual è allora la strada da perseguire? È triste dirlo, ma non è l’apertura di questi negoziati.Uno dei mantra più gettonati fra le anime belle, da decenni ormai, è che “le guerre non hanno mai risolto niente”. Ebbene, chi lo afferma o ignora la storia, o mente in malafede, perché un semplice sguardo a tutta la storia passata permette di constatare che, al contrario, spesso le guerre hanno risolto i problemi per i quali erano state scatenate, fossero essi di natura religiosa, o politica, o territoriale o di qualunque altro genere. Non si vuole certo, con questo, affermare che la guerra sia bella, o buona, o giusta – e meno che mai santa – ma solo fare un po’ di chiarezza: che le guerre non risolvano i problemi è falso. Le guerre possono risolvere, e spesso di fatto risolvono, i problemi (e magari capita anche che, dopo una pesante sconfitta, riescano ad aprire la porta alla democrazia, vedi Germania, vedi Italia, vedi Giappone). A condizione che vengano lasciate combattere. A condizione che fra i contendenti non si intromettano entità estranee e interessi estranei. A condizione che alle guerre venga consentito di giungere alla loro naturale conclusione: la vittoria del più forte. Ed è questo che non è MAI stato fatto nelle guerre combattute da Israele: ogni volta che Israele, aggredito allo scopo di annientarlo, stava per prendere il sopravvento, ogni volta che Israele stava per avere ragione degli eserciti nemici o delle organizzazioni terroristiche, ogni volta che Israele è stato in procinto di concludere finalmente, in modo definitivo, questa che si avvia ormai a diventare una delle guerre più lunghe della storia dell’umanità, l’intero consesso internazionale si è massicciamente mobilitato per impedire che ciò avvenisse. Ed è per questo che, per fare un solo esempio, quando l’Onu e il mondo intero hanno imposto a Israele di interrompere la guerra del 1967 prima di giungere a una vera, definitiva sconfitta dei suoi nemici, tutti gli stati arabi si sono potuti permettere di respingere in blocco tutte le richieste contenute nella risoluzione 242 (no al riconoscimento, no al negoziato, no alla pace) e continuare lo stato di belligeranza. Qualcuno immagina forse che si sarebbe potuto fermare Hitler con qualche bel discorso? O lanciando palloncini colorati? O con qualche pressione internazionale? O magari con la “politica della mano tesa” e generose concessioni? Qualcuno si è illuso di poterlo fare, e si è puntualmente realizzata la profezia lanciata già nel 1938 da Churchill: “Potevate scegliere tra la guerra e il disonore. Avete scelto il disonore. Avrete la guerra". E le parole di Churchill rimangono sempre di scottante attualità: negoziare con chi ti vuole distruggere senza averlo prima sconfitto non porterà non solo l’onore, ma neanche la pace. Discorso cinico? No, semplicemente realistico. Che spiacerà soprattutto agli israeliani, talmente desiderosi di pace da essere disposti, in nome di essa, quasi a tutto, ma sessant’anni di guerra preceduti da quasi trent’anni di terrorismo sono lì a dimostrare che ogni altra via è destinata al fallimento. E di un altro mantra occorrerà sbarazzarsi al più presto: quello della “proporzione”. Quando ci si avventura in una contesa, sia essa una guerra di offesa, una guerra di difesa, un incontro di calcio o una partita a briscola, non lo si fa per essere proporzionati: si fa per vincere. Altrimenti la contesa continuerà all’infinito in una situazione di sostanziale stallo, con un interminabile stillicidio di morti, da una parte come dall’altra. Perché non solo in medicina, ma anche in politica e in guerra, il medico pietoso fa la piaga purulenta: ricordarlo farebbe un gran bene a tutti. E soprattutto alla pace.Barbara Mella ,Emanuel Segre Amar,


Matrimoni

Voci a confronto

Iniziano oggi a Washington le trattative promosse da Obama per la pace in Medio Oriente. Trattative difficili, già fallite molte volte, sulla base di disaccordi sostanziali su temi come i confini, la sicurezza, l’eventuale “ritorno” di profughi palestinesi, il riconoscimento del carattere ebraico dello stato israeliano da parte dei palestinesi. Sono temi molto noti, esposti da anni, su cui non ci sono grandi novità. Tutti i giornali espongono questi punti, accentuando questo o quell’aspetto delle difficoltà, l’ottimismo o il pessimismo. Per una sintesi, consiglio di leggere l’articolo di Guido Olimpio sul Corriere e quello di Maurizio Molinari sulla Stampa, corredato dalla scheda di Aldo Baquis, sempre sulla Stampa. L’inizio della trattative è complicato dagli attacchi terroristici di Hamas (e forse di altre forze non marginali del fronte palestinese). Dopo le quattro vittime trucidate ieri a Hebron, c’è stata un attentato vicino a Ramallah con due feriti. La reazione degli abitanti degli insediamenti di Giudea e Samaria, che sono nell’obiettivo è stato di annunciare che le costruzioni dentro gli insediamenti ricominceranno (redazione di Avvenire) subito, qualche settimana prima della fine del blocco annunciato da Netanyahu sei mesi fa. Ma il regime delle costruzioni è una delle materie negoziali e l’Autorità Palestinese ha annunciato il ritiro qualora l’attività edilizia ripartisse. Nel frattempo ci sono delle aperture sia da parte di Netanyahu, che ha chiamato il presidente palestinese partner per la pace e ha assicurato di vedere un’occasione storica nelle trattative (Trincia sul Messaggero, Acquaro su Repubblica), sia soprattutto da parte del ministro della difesa e leader laburista Barak, che in un’intervista al “Jerusalem Post” ha proposto un piano di accordo che comprende la cessione delle parti di Gerusalemme più fittamente abitate da arabi al nuovo stato Palestinese (Battistini sul Corriere). I giornali si interrogano sul significato di questa uscita, se sia un “ballon d’essai” concordato con Netanyahu o una mossa autonoma di Barak, che magari preluda a una ristrutturazione politica in Israele (Baquis sulla Stampa). Nel frattempo però la trattativa di pace a molti appare un percorso difficilissimo, una “sfida impossibile” (Friedman su Repubblica). Molto interessante l’analisi di R.A. Segre sul Giornale, che rintraccia nell’economia le ragioni di una nuova forza israeliana che potrebbe metterlo almeno in parte al riparo dalle pressioni americane.Ugo Volli, http://moked.it/


Dice che a Cuba

Ad un’importante riunione dei Comunisti Italiani, tenutasi alla sezione Bar e Tabacchi della Stazione Ostiense, è finalmente esplosa la verità sul traffico contro-rivoluzionario sionista a Cuba. Le informazioni come al solito sono certissime, essendo state origliate da Serrapanca Luigi, della cellula guevarista di Ostia-Lido, “Cuba rossa, i servi americani e tutte quante le colf sioniste nella fossa”. Il Serrapanca giura su Berlusconi di averle sentite da un certo Nando Paneazzimo in Mosè che, dice, per risparmiare i soldi del barbiere il lunedì si va a tagliare i capelli direttamente sulle rotaie della Metro. Questo Paneazzimo avrebbe saputo tutto da Sansone Abraminucci, che, dice, fa il massaggiatore di gorilla allo zoo. Abraminucci, che tra parentesi dice ha sei o sette gobbe, ha confidato realisticamente a Nando e a un babbuino cosa tramenano gli ebrei a Cuba. Dice, che all’incontro del 31 agosto tra Castro e i rappresentanti della comunità ebraica cubana, tutto è andato non bene, ma benissimo, dato che Fidel per gli ebrei si squarcerebbe il fegato e glielo offrirebbe spalmato, e se non lo fa è perché non è kasher e sa troppo di rum. Dice, che l’incontro con gli ebrei si è svolto all’acquario della capitale per alcuni delicati chiarimenti dopo l'arresto a dicembre del sospetto doppiogiochista fascio-imperialista-Usa Alan Gross, che ha un cognome che zufola in ebraico dal Portico d’Ottavia sino all’Antartide. Dice, che questo Gross ha distribuito una pacchettata di telefoni satellitari ai dissidenti, e questo a Fidel spiace. E dire che Lui ha una pazienza da santo e da trentanni ingoia che la sera del capodanno ebraico quando il rabbino di Cuba suona lo shofar in realtà telefona alla Cia. Ma pace, tutto questo viene ripetutamente perdonato dal Leader Maximo. L’unica neo, peloso, è che a Fidel spiace che gli ebrei non vogliano pregare in iraniano ora che finalmente Teheran è la nuova luce del mondo socialista. Ma come dicevamo, l’incontro si è svolto in una cornice di grande equilibrio all’acquario della capitale. Castro ha chiesto se c’erano critiche e nessuno ha detto niente. Poi Fidel ha lasciato la sala e il gruppo degli ebrei è risalito a galla. Il Tizio della Sera http://www.moked.it/



amazzoni!!!


Ai margini della visita a Roma del colonnello Gheddafi. Questa settimana è arrivato in visita a Roma il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu. Accompagnato da trenta cavalli, numerose amazzoni in tenuta militare, e accolto da un molto sorridente ministro degli Esteri, Netanyahu si è subito trasferito nella sua grande tenda, mentre decine di elicotteri perlustravano i cieli di Roma. Netanyahu ha chiesto che il Governo italiano, come indennizzo del bombardamento di Tel Aviv effettuato dall'aviazione italiana il 9 settembre 1940, e che causò 137 morti, costruisca un'autostrada in Israele da Naharia fino a Eilat, per un costo stimato a tre miliardi di Euro. Netanyahu ha poi accolto una delegazione di cinquecento bellissime donne, reclutate da un ufficio di PR, e ha proclamato che l'ebraismo è, dev'essere, e sarà la religione dell'Europa. Al termine della sua lezione, tre giovani donne romane, anch'esse bellissime, si sono convertite all'istante all'ebraismo. La stampa italiana ha coperto l'avvenimento con solerzia e equanimità, senza inutili critiche e sarcasmi.Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme, http://www.moked.it/




Benny Morris

“IL MITO DI UNA PALESTINA LAICA E DEMOCRATICA”

La leadership palestinese non ha mai voluto i due Stati
L'evoluzione del movimento nazionale palestinese è stata radicalmente diversa (rispetto all'evoluzione del movimento sionista, ndt). In effetti, non vi è stata alcuna evoluzione nei confronti di Israele e del Sionismo. Gli avvenimenti degli anni 1937, 1947, 1978 - anno in cui Arafat rifiutò gli accordi di Camp David raggiunti da Begin e Sadat, che prevedevano l'auto-governo dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania - e 2000 si sono rivelati inconcludenti e non hanno consentito alcun cambiamento o progresso verso un obiettivo finale. Haj Ami al-Husseini (Gran Muftì di Gerusalemme durante il Mandato britannico sulla Palestina, ndt) e Arafat lottarono con la medesima determinazione per una particolare forma di one-state solution (al-Husseini tentò di abbattere lo Stato ebraico e di rimpiazzarlo con uno Stato unitario arabo-islamico mediante azioni repentine e, nei suoi intenti, decisive, mentre Arafat oscillò tra accelerazioni violente e un approccio più indiretto; ma l'obbiettivo era lo stesso per entrambi).
Il movimento nazionale palestinese vide la luce con il chiaro intento di edificare uno Stato arabo islamico in Palestina - la sua one-state solution - e ha continuato a difendere quell'impostazione sino ai giorni nostri. Inoltre, come corollario, al-Husseini, il leader nazionale palestinese negli anni trenta e quaranta, l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), guida del movimento palestinese dagli anni sessanta alla morte di Arafat nel novembre 2004, e Hamas, oggi, hanno cercato e cercano di ridurre il numero di abitanti ebrei nell'area, in altre parole, una sorta di pulizia etnica in Palestina. Al-Husseini e l'Olp hanno esplicitamente dichiarato la loro intenzione di limitare la cittadinanza palestinese a quegli ebrei che avessero vissuto stabilmente in Palestina prima del 1917 (o, in un'altra versione, limitarla a quei 50.000 ebrei e ai loro discendenti). Un obiettivo espresso chiaramente nella Carta Nazionale Palestinese e in altri documenti. Pubblicamente, Hamas è stata più cauta a riguardo, ma le sue intenzioni sono cionondimeno chiare.La visione palestinese non è mai stata, come descritta dai vari portavoce palestinesi negli anni sessanta, settanta e ottanta ai giornalisti occidentali, quella di una "Palestina laica e democratica" (che suona certamente meglio de "la distruzione di Israele", un retro pensiero sempre presente). Invece, una "Palestina laica e democratica" non è mai stata al centro dei piani né di Fatah né dei cosiddetti gruppi moderati che hanno dominato l'Olp dagli anni sessanta alle elezioni del 2006, che hanno portato al potere Hamas. Rashid Khalidi ha scritto che "nel 1969 l'Olp modificò la sua postura e da allora ha sempre auspicato l'instaurazione di uno Stato laico e democratico in Palestina per musulmani, cristiani ed ebrei, che rimpiazzasse Israele." E Ali Abunumah ha scritto, nel suo recente libro, Una nazione (One Country): "L'Olp adottò infine (nei tardi anni sessanta e all'inizio dei settanta), come sua posizione ufficiale, l'obiettivo di uno Stato laico, democratico in tutta la Palestina."Questa è una fesseria. Il Consiglio Nazionale Palestinese non ha mai modificato la Carta Nazionale Palestinese in modo da rendere chiaro che il fine ultimo dell'Olp fosse il suddetto Stato laico e democratico. Un simile concetto non è mai apparso nella Carta, né in alcuna risoluzione dei comitati centrali dell'Olp, del Consiglio stesso e del Comitato Esecutivo di Fatah. Si tratta di un orpello inventato per imbonire gli occidentali, del tutto estraneo alla principale corrente ideologica del mondo palestinese. La leadership palestinese non ha mai sostenuto la nascita di una Palestina laica e democratica.Il Consiglio Nazionale Palestinese modificò la Carta nel 1968, non nel 1969, ma la ratio dell'emendamento fu di limitare la cittadinanza non-araba nella futura Palestina liberata agli "ebrei che avessero risieduto stabilmente in Palestina prima dell'inizio dell'invasione sionista" - si parla del 1917.
E' vero, la Carta così modificata garantiva anche, nel futuro Stato di Palestina, "libertà di culto e di visita" ai luoghi sacri per tutti, "senza discriminazione di razza, colore della pelle, lingua o religione." Senza dubbio, questa era musica per le orecchie liberal degli occidentali, ma non aveva alcuna connessione con la realtà e con la storia delle società arabo-islamiche contemporanee. Fu, come ogni ipocrisia, "un tributo che il vizio paga alla virtù." Quale società arabo-musulmana nell'era moderna ha trattato con tolleranza ed equità cristiani, ebrei, buddisti, hindu e pagani? Per quale motivo dovremmo credere che i musulmani arabo-palestinesi si comporteranno in modo diverso (vedi la partenza precipitosa dalle zone palestinesi della gran parte degli arabi cristiani, vedi la recente uccisione del proprietario arabo-cristiano di una libreria di Gaza, vedi l'incendio doloso della libreria della Young Men's Christian Association, sempre nella Striscia)? I liberal occidentali amano vedere o pretendono di vedere gli arabi palestinesi, in realtà tutti gli arabi, come degli scandinavi e rifiutano di riconoscere che i popoli, per varie ragioni storiche, culturali e sociali, sono differenti e si comportano in modo diverso tra loro quando si trovano ad affrontare circostanze simili o identiche. (Perché, per esempio, i neri africani, che per secoli hanno subito vessazioni gravissime da parte sia degli occidentali che degli arabi, non si sono mai sollevati e dedicati al terrorismo internazionale contro obiettivi occidentali e arabi?)
E allora, dove ha avuto origine lo slogan di una "Palestina laica e democratica"? L'enunciazione venne proposta per la prima volta nel 1969 dal piccolo gruppo scissionista marxista del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina. Secondo Khalidi, "l'idea venne in seguito sostenuta dai leader del movimento dominante di Fatah...il modello dello Stato laico e democratico è dunque diventato la posizione ufficiale dell'Olp." Come ho già detto, è una pura invenzione. Il Consiglio Nazionale Palestinese, l'Olp e Fatah respinsero quella proposta, che non venne ripresa nelle dichiarazioni di alcun leader o organismo palestinese - sebbene i media occidentali insistettero per tutti gli anni settanta ad attribuir loro una posizione del genere. Come risultato, comunque, il mito ha preso piede e si è diffusa la convinzione che quello fosse il fine dell'Olp dalla fine degli anni sessanta agli anni ottanta.E oggi, ancora, e per le stesse ragioni, "una Palestina laica e democratica" (una frase che mantiene il suo sapore liberal, positivo e multiculturale) viene sbandierata dai sostenitori di uno Stato unico palestinese. Pochi in realtà credono o desiderano questo risultato, ma data la realtà della politica e degli atteggiamenti palestinesi, l'altisonante frase serve, obiettivamente, per camuffare il vero fine: la creazione di uno Stato arabo-musulmano in grado di rimpiazzare Israele. E, come nel passato, l'obiettivo di "una Palestina laica e democratica" non fa parte della piattaforma politica di alcuno dei maggiori partiti palestinesi o di alcuna loro istituzione.Addirittura, l'enunciato è più privo di significato oggi di quanto non lo fosse tre decadi or sono. E lo è soprattutto perché gli arabi palestinesi, come le altre comunità arabo-islamiche nel mondo, sono profondamente religiosi e non hanno rispetto per i valori democratici, senza aver inoltre tradizioni di governante democratica. E' emblematico il fatto che il primo leader del movimento nazionale palestinese - il già citato Haj Amin al-Husseini - fosse un religioso autocratico che governava con la forza delle armi; e non era un caso che egli impiegasse retorica e simboli religiosi per mobilitare la sua gente contro gli "invasori" infedeli. Era il linguaggio in grado di raggiungere il cuore delle masse palestinesi. Brandire l'arma ideologica di "una Palestina laica e democratica" durante gli anni di al-Husseini e di Arafat avrebbe semplicemente alienato loro il consenso delle masse - un fatto che spiega perché i massimi organismi politici palestinesi si siano sempre guardati bene dall'adottare ufficialmente lo slogan.Sotto questo profilo, le cose sono andate peggiorando a partire dagli anni sessanta in poi. A chi sia sfuggita l'importanza della vittoria di Hamas nelle elezioni del 2006 e della violenta presa di Gaza del 2007, un semplice sguardo alla situazione della West Bank e di Gaza oggi (e dei villaggi e delle città abitate da minoranze arabo-israeliane) rivela un paesaggio dominato dalle moschee e minareti di nuova costruzione, dalle invocazioni dei muezzin che riempiono l'aria, dalle donne coperte dall'hijab che calcano le strade. Solo i folli e i bambini sono convinti che nel 2006-2007 Hamas abbia sbaragliato Fatah grazie alla sua immagine incorrotta e alle sue azioni caritatevoli a vantaggio dei poveri. Sono stati dei fattori importanti, non lo nego, ma le principali ragioni della vittoria sono religiose e politiche: la crescente religiosità delle masse palestinesi e il "riconoscimento" del fatto che Hamas impersonifichi la "verità" e che, con l'aiuto di Allah, possa condurre il popolo palestinese alla vittoria finale sugli infedeli, dato che il movimento islamista ha già ottenuto, tramite la lotta armata, il ritiro degli infedeli dalla Striscia di Gaza nel 2005. (Traduzione a cura di Fabio Lucchini)...Tratto da Uno Stato, due Stati: Come risolvere la questione israelo/palestinese?, Benny Morris, Yale University Press 2010

giovedì 2 settembre 2010


M.O.: 40 ANNI DI NEGOZIATI FALLITI. ECCO LE TAPPE (SCHEDA)

(ASCA) - Roma, 2 set - Dopo uno stallo di 20 mesi, avranno inizio oggi i colloqui di pace diretti tra Israele e l'Autorita' nazionale palestinese.Dallo scoppio della Guerra dei Sei giorni nel 1967, si sono susseguiti diversi negoziati con esiti parziali e discordanti. Ecco le tappe principali dei colloqui di pace negli ultimi 40 anni. 1967 - Risoluzione 242 - Approvata il 22 novembre dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l'accordo stabilisce i principi guida della maggior parte dei piani di pace successivi. La risoluzione chiede il ''ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati nella guera dei Sei Giorni'', nonche' ''il rispetto e il riconoscimento della sovranita' e dell'indipendenza politica'' degli stati confinanti. 1977 - Storica visita a novembre a Gerusalemme del presidente egiziano Anwar Sadat. 1978 - Accordi di Camp David. Il Presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter, cavalcando le speranze suscitate dalla visita, invita Sadat e il primo ministro israeliano Menachem Begin a Camp David, vicino a Washington, per colloqui di pace. I negoziati si protraggono per 12 giorni e sfociano in due accordi in base ai quali Israele si impegna a restituire la penisola del Sinai all'Egitto, mentre quest'ultimo si discosta dalle posizioni estremistiche dell'Olp, il movimento per la liberazione della Palestina. Tuttavia, la pace tra Egitto e Israele dura poco. Due anni dopo i trattati, il presidente egiziano Sadat viene assassinato dagli estremisti islamici facendo nascere nuove tensioni tra i due paesi. 2001 - Conferenza di Madrid - Sponsorizzata da Stati Uniti e Unione Sovietica, e' convocata per incoraggiare altri paesi arabi a firmare accordi con Israele. Oltre a Israele ed Egitto sono invitati Giordania, Libano e Siria. La conferenza porta a un trattato di pace tra Israele e Giordania nel 1994. 1993 - Accordi di Oslo - Affrontano l'elemento mancante di tutti i discorsi precedenti, un accordo diretto tra israeliani e palestinesi, rappresentati dall'Olp. L'accordo, firmato nel giardino della Casa Bianca il 13 settembre 1993, alla presenza del presidente americano Bill Clinton, stabilisce il ritiro delle truppe israeliane dalla Cisgiordania e da Gaza, e l'istituzione di un ''governo ad interim palestinese''' per un periodo transitorio di cinque anni. Hamas rifiuta gli accordi e lancia una serie di attacchi suicidi contro Israele. 2000 - Camp David - Nei colloqui tra il primo ministro israeliano Ehud Barak e il presidente dell'Olp Yasser Arafat vengono affrontate le questioni dei confini, dello status di Gerusalemme e del ritorno dei rifugiati. Israele offre la Striscia di Gaza, gran parte della Cisgiordania, e alcune aree del deserto del Negev, in cambio del controllo degli insediamenti principali e della maggior parte di Gerusalemme est. I palestinesi vogliono invece il ritiro israeliano entro i confini del 1967 e il ritorno dei profughi. L'incontro si conclude con un nulla di fatto .2001 - Taba - In occasione di questi negoziati, patrocinati dal presidente americano Bill Clinton, le due parti dimostrano maggiore flessibilita' sui confini e per la prima volta Israele accetta Gerusalemme est come capitale di uno stato palestinese. 2002 - Piani di pace in Arabia Saudita - Il piano di pace saudita viene presentato al vertice arabo di Beirut nel marzo 2002. Prevede il ritiro di Israele ai confini del giugno 1967 e la creazione di uno stato palestinese in Cisgiordania e a Gaza. In cambio, i palestinesi devono riconoscere Israele. Il piano viene approvato nel corso del vertice arabo di Riyadh del 2007. 2003 - Roadmap - Si tratta di un calendario elaborato dal 'Quartetto' formato da Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Nazioni Unite. Non stabilisce i dettagli di una soluzione definitiva, ma suggerisce una strada da seguire per raggiungere la pace. Gli obiettivi della roadmap, da raggiungere entro il 2005, non sono mai stati conseguiti. 2003 - Accordi di Ginevra - L'accordo prevede che i palestinesi rinuncino al loro ''diritto al ritorno'' in cambio di quasi tutta la Cisgiordania. Prevede anche che Israele ceda alcuni insediamenti importanti come quello di Ariel, pur mantenendo quelli piu' vicini al confine, e che i palestinesi stabiliscano a Gerusalemme est la capitale del loro futuro Stato. 2007 - Annapolis - Gli accordi di Annapolis tra il primo ministro israeliano Ehud Olmert e il presidente dell'Autorita' palestinese Mahmoud Abbas prevedono il raggiungimento di un accordo pieno di pace entro la fine del 2008. Incontri regolari tra i due leader hanno avuto luogo fino all'offensiva militare israeliana, 'Piombo fuso', contro la Striscia di Gaza del 2008, quando i negoziati hanno subito una brusca interruzione.


Il destino di Gerusalemme divide il governo israeliano
Domani a Washington colloqui diretti di pace in Medio Oriente. Barak apre sulla divisione dellacittà, ma arriva no di Netanyahu
WASHINGTON A poche ore dall’inizio dei negoziati diretti israelo-palestinesi il ministro della difesa (e leader del partito laburista) Ehud Barak ha affrontato in maniera indipendente una delle questioni più spinose: il futuro assetto di Gerusalemme est, nel contesto di un accordo definitivo di pace fra Israele e i palestinesi. In una dettagliata intervista al quotidiano Haaretz, Barak ha spiegato che Gerusalemme ovest deve restare ebraica. Gerusalemme est dovrà invece essere spartita, su base demografica: 12 rioni ebraici, dove oggi abitano 200 mila israeliani, dovranno essere inclusi in Israele, in via definitiva, mentre i rioni arabi di Gerusalemme est (dove abitano 250 mila persone) passerebbero allo Stato palestinese. Per la Città Vecchia (dove si trovano anche i luoghi santi cristiani e islamici) e per il ’Santo Bacinò (il Monte degli Ulivi e la Città di Davide, ossia il rione di Silwan, alle pendici della Città Vecchia) dovrebbe essere messo a punto «un regime particolare, con accorgimenti concordati». Barak era premier quando nel 2000 a Camp David fu organizzato un drammatico vertice israelo-palestinese con Yasser Arafat, che si concluse con un nulla di fatto, ma dove aveva già ipotizzato la divisione di Gerusalemme. Nell’intervista ha toccato molti altri temi: fra cui la possibilità che alla fine del mese riprendano in forma limitata lavori di espansione nelle colonie in Cisgiordania. Ma la sua sortita su Gerusalemme è stata notata dalla delegazione israeliana al seguito a Washington del premier Benyamin Netanyahu. «Gerusalemme resterà la capitale indivisibile di Israele» ha seccamente replicato un anonimo dirigente al seguito del primo ministro. In realtà a quanto risulta Israele ha già intavolato con l’Autorità nazionale palestinese trattative dettagliate sulla spartizione della Città santa. Lo stesso Olmert ipotizzò nel 2008 - durante i negoziati con Abu Mazen - una divisione simile a quella enunciata da Barak e una soluzione ’internazionalè per il "Santo Bacino".Dunque, al tavolo dei negoziati, il tabù della spartizione di Gerusalemme si è incrinato da tempo. Ma sul piano delle dichiarazioni ufficiali, Israele si attiene ancora alla formula di Gerusalemme come «capitale indivisibile». Un banco di prova per Barak, che giustifica la permanenza dei laburisti al governo con la sua asserita capacità di «lavorare pazientemente ai fianchi» il leader del Likud, Benyamin Netanyahu.1/9/2010 http://www.lastampa.it/


antiche foto città vecchia di Gerusalemme


Gerusalemme a tutti i costi

Vivere blindati, armati e protetti dai soldati.Vivere blindati, armati e protetti dai soldati. Ma vicini alla cittadella del Re David. Nel mezzo dei quartieri arabi si insediano famiglie di ebrei ortodossi che non disdegnano la provocazione. E tra espulsioni, revoca dei permessi di residenza, espropri, tra la popolazione palestinese cresce la rabbia. Le grate alle finestre e gli uomini della security che controllano i vicoli intorno alle abitazioni fanno pensare più ad un campo di prigionia che a una zona residenziale. I bambini non hanno la libertà di muoversi e giocare come in altri quartieri della città, qui rimangono nel loro cortiletto o escono per mano dei genitori. I loro padri sono spesso armati e non rivolgono mai la parola agli altri abitanti della zona.Siamo nel centro di Gerusalemme. A pochi passi dalla città vecchia. È una vita difficile, piena di tensione. Non è raro vedere automobili colpite da sassi, copertoni d’auto bruciati, l’ostilità del resto dei residenti del quartiere è motivo di continua preoccupazione per alcune famiglie. Eppure c’è chi sceglie di far vivere ai propri figli questa situazione senza alcuna remora. Non solo: qualcuno addirittura, per venire a trasferirsi tra grate e sbarre di ferro, ha lasciato pacifiche abitazioni in quartieri residenziali verdi e tranquilli. Zone cui non mancava nulla, apparentemente. Invece per chi le ha lasciate erano luoghi invivibili perché troppo lontani dall’antica cittadella di David o dalla tomba del venerabile Shimon Ha-Zadik. Verrebbe da pensare: chi se ne importa di abitare nell’area della vecchia città di David, ormai distrutta, o accanto alla tomba di un vecchio saggio morto 2300 anni fa, se le condizioni di vita sono queste. Invece ad alcuni ebrei estremisti importa eccome. Installarsi vicino ai propri luoghi santi, circondati da arabi ostili, è per loro quasi una mitzvà, una buona azione, un dovere di fronte alla storia ebraica, con buona pace della sicurezza dei loro figli e del clima che essi respirano fin dai primi anni di vita.È questo uno dei nodi più intricati della realtà di Gerusalemme. Non esistono solo i quartieri ebraici costruiti oltre la linea verde, non c’è solo il muro che taglia in due alcuni sobborghi arabi della città, non ci sono solo gli equilibri demografici che cambiano sempre più a favore della popolazione araba e ultraortodossa, a complicare la situazione ci sono anche alcune, poche, migliaia di ebrei che hanno deciso di andare a vivere nel bel mezzo dei principali quartieri arabi della città. In zone come Sheik Jarrà o Silwan che rappresentano, insieme al Monte degli Ulivi, il cuore della Gerusalemme araba. La loro presenza, neanche a dirlo, crea scontri e tensione. Anche perché l’amministrazione municipale sembra voler incoraggiare la giudaizzazione di alcune zone. Un esempio per tutti. Alcune famiglie arabe, profughe dalla nascita d’Israele, vivevano dal 1948 in piccole abitazioni di Sheik Jarra, accanto alla tomba di Shimon Ha-Zadik. Erano case una volta abitate da ebrei, lasciate libere dai loro originali proprietari in fuga durante la guerra del 1948-49 e dopo la spartizione di Gerusalemme tra Israele e Giordania. Quelle case si trovarono tra il 1948 e il 1967 in territorio Giordano. Rimaste libere furono quindi concesse a profughi arabi provenienti da altre parti della Palestina diventata Israele. Lo scorso anno Israele ha espulso chi le abitava ormai da 60 anni, perché residente “abusivo” e ha riassegnato le abitazioni ad alcuni ebrei, che si dicono seguaci di Shimon HaZadik. Due famiglie arabe sono rimaste per settimane in una tenda montata in un parcheggio sotto le loro vecchie abitazioni, protestavano contro il provvedimento, e non sapevano dove andare. Il contrario ovviamente a Gerusalemme non sarebbe possibile. Nessun arabo scappato dalla sua casa di Talbye, Baka, o German Colony può pretendere l’espulsione degli attuali residenti andati ad abitarci dopo il 1948. Non solo, ma tutti gli arabi della città, che hanno la carta d’identità israeliana ma non il passaporto dello Stato ebraico, hanno sempre un permesso di fatto temporaneo di residenza. Un giovane può avere radici centenarie a Gerusalemme ed esserci nato, ma se va a studiare all’estero per più di sette anni perde il permesso di residenza. Un ebreo che non ha mai visto la città, può arrivare qui a qualsiasi età, e per la Legge del Ritorno rimanerci per sempre senza limiti o permessi da rinnovare. Altri provvedimenti di espulsione sono invece pronti sul tavolo del sindaco per 20 famiglie arabe di Silwan, il quartiere che si trova dove, secondo gli archeologi, sorgeva un tempo la Gerusalemme di re David. Lì, secondo i piani del comune dovrà nascere un parco turistico e quelle case danno fastidio. Non danno però fastidio al municipio i circa 2000 residenti ebrei del quartiere il cui numero è salito costantemente negli ultimi anni. Una e IndivisibileSe Gerusalemme fosse una città “normale”, aperta ovunque a tutti, non ci sarebbe nulla di strano, ognuno potrebbe o dovrebbe poter abitare ovunque. Ma la città santa, in quanto tale, è al centro di ogni colloquio di pace, è indivisibile per gli ebrei che ora la controllano, deve assolutamente essere divisa per i palestinesi che ne invocano la parte est. Curioso che qualche decennio fa agli ebrei andava bene la divisione e agli arabi no! I palestinesi vivono le enclave residenziali costituite dagli ebrei estremisti nei loro quartieri come atti di arroganza. La presenza ebraica è spesso contrassegnata da bandiere e striscioni. Nessuno pensa a una convivenza pacifica tra le parti. La maggior parte degli ebrei che abitano i quartieri arabi lo fanno col sogno di diventare un giorno maggioranza in onore all’antica storia di quei luoghi, gli arabi sperano che presto quegli stessi luoghi diventino parte dello Stato di Palestina e che gli ebrei siano quindi costretti ad andarsene. Il governo e il comune di Gerusalemme incoraggiano o non si oppongono al trasferimento di famiglie ebree ad est per creare una situazione sul campo che di fatto renda indivisibile la città. E tutto ciò accade mentre la tensione sale e la maggioranza dei cittadini paga il prezzo dell’assenza non solo di una pace ma anche di leader responsabili che consentano alle parti di convivere senza provocazioni.Renato Coen, da Gerusalemme http://www.mosaico-cem.it/


Se Amos Oz viene tradotto in arabo...

» Storia di amore e di tenebra., il best-seller in cui lo scrittore israeliano Amos Oz ripercorre la sua prima giovinezza a Gerusalemme - è stato ora tradotto in arabo e sta per essere distribuito in Libano, Egitto e Giordania. Non è solo un’iniziativa editoriale, ma molto di più: la traduzione è stata infatti voluta e finanziata da un palestinese colpito due volte dal terrorismo, l’avvocato Elias Khoury. E la versione araba del libro è dedicata a suo figlio, George, ucciso a Gerusalemme nel 2004 da miliziani delle Brigate dei Martiri di al-Aqsa (al-Fatah), persuasi inizialmente di aver “eliminato un sionista”. Scoperta poi la nazionalità della vittima, il presidente dell’Anp Yasser Arafat avrebbe telefonato a Khoury per esprimere cordoglio. Già nel 1975 Elias Khoury aveva perso il padre in un attentato nel centro di Gerusalemme, che fece anche strage di israeliani. Per ricordare degnamente il figlio George - uno studente universitario “che prometteva bene, amava la musica classica e lo sport” - la famiglia Khoury ha chiesto allo scrittore Jamil Ghneim di tradurre in arabo il testo di Amos Oz. “La letteratura - ha spiegato Elias Khoury - può favorire la vera comprensione. Solo se ci conosceremo l’un l’altro potremo giungere alla riconciliazione fra noi”. Oz, dal canto suo, ha notato che delle 27 traduzioni di questo suo libro finora “quella in arabo è certo la più importante”. Nel testo egli descrive la Gerusalemme negli anni del Mandato britannico in Palestina, poi della guerra di indipendenza israeliana e infine la nuova vita per gli ebrei scampati all’Olocausto nello Stato ebraico. Un testo complesso, forse il più bello di Oz, con luci ed ombre, che di recente ha ricevuto una recensione molto positiva anche sul quotidiano arabo al-Hayat. “Correte a comprarlo” consiglia l’autore dell’articolo al pubblico arabo. Chissà se i semi germoglieranno. (Aldo Baquis)Milano 31/05/10, http://www.mosaico-cem.it/


L'Avana

Cuba: Fidel incontra il presidente della Comunità ebraica

L'Avana, 31 ago - Il leader cubano Fidel Castro ha incontrato la presidente della Comunità ebraica a Cuba Adela Dworin. "Durante la visita all'acquario c'è stato uno scambio di informazioni tra il leader della Rivoluzione e i suoi ospiti", scrive il quotidiano Granma. La Comunità ebraica è al centro dell'attenzione in seguito all'arresto lo scorso dicembre all'Avana dell'operatore statunitense Alan Gross, 60 anni, per aver distribuito telefoni satellitari agli oppositori, secondo le autorità cubane, che lo accusano di spionaggio.