mercoledì 16 marzo 2011


Non facciamo come gli struzzi

La strage di Itamar, dove sono stati sgozzati cinque coloni tra cui tre bambini, è servita a riportare in prima pagina il terrorismo di stampo palestinese. L’Europa, però, fa finta che il problema non esistaIn Israele alcuni giornali hanno pubblicato le terrificanti foto della strage avvenuta lo scorso fine settimana in una città della Samaria che il mondo conosce con il nome di “colonia”, ossia Itamar. Dare del “colono” a un israeliano è la scorciatoia più facile per giustificare, anzi per legittimare il suo assassinio: se l’è cercata. Per aprire gli occhi alle anime belle che continuano a vedere il terrorismo islamico di buona parte delle formazioni armate palestinesi come una variabile del conflitto medio orientale, avremmo potuto pubblicare le stesse foto apparse sui giornali israeliani, ma data la loro durezza preferiamo evitare. Questa strage - tre bambini più il padre e la madre, praticamente tutta la famiglia Fogel, sgozzata nel sonno da un paio di “eroici militanti della jihad”, come sono stati subito definiti a Gaza dai maggiorenti di Hamas, che hanno anche distribuito dolcetti e the alla popolazione per festeggiare il lieto evento, mentre va dato atto che Abu Mazen a l’Anp ieri, solo ieri, hanno condannato timidamente l’episodio - ha una motivazione che se possibile è ancora più ignobile delle stesse modalità usate per compierla: fare ritornare in prima pagina la causa palestinese, del tutto dimenticata e anzi lasciata a sé stessa dal resto del mondo arabo. Che almeno nella cosiddetta rivoluzione dei gelsomini della Tunisia sembra avere prediletto il metodo non violento, pur con tutte le contraddizioni che si conoscono. Gli eroi palestinesi hanno aspettato che dormissero, poi sono entrati e li hanno sgozzati: Udi e Ruthi Fogel e i loro tre bambini, Hadas di tre mesi, Elad di tre anni e Yoav di undici anni. Insomma si uccidono tre bambini, una delle quali di tre mesi, e due genitori, per dire “ci siamo anche noi”. E lo si fa con metodi da serial killer che ricordano quelli di Satana Manson nel 1968 a Bel Air nella strage in cui fu uccisa Sharon Tate, la seconda moglie del regista Roman Polanski. Tra parentesi in Italia ci sono giornali come “La Repubblica” che a questa strage hanno dato un rilievo quasi nullo e quindi la voglia di pubblicare quelle foto che sono come un pugno nella bocca dello stomaco era ancora più sentita. Senonché. ci siamo messi nei panni dei superstiti della famiglia Fogel, che da ebrei ortodossi avrebbero certamente gradito che le immagini macabre della loro stessa morte fossero state risparmiate ai posteri e quindi abbiamo soprasseduto. Rimane lo sdegno per chi, nella dirigenza della lotta armata palestinese, i macellai delle Brigate dei martiri Al Aqsa, ha pianificato un simile e vigliacco gesto pur di tornare in prima pagina. E anche per i tanti giustificazionisti anti israeliani europei e di casa nostra che mettono sullo stesso piano un delitto deliberato e un raid antiterrorismo su Gaza in cui può morire, ma solo per sbaglio, anche un bambino palestinese. In una terribile ma verissima vignetta di qualche anno fa, ai tempi della infame seconda intifada, era rappresentata perfettamente la differenza tra i bambini che muoiono tra i palestinesi e quelli che muoiono tra gli israeliani: nella prima immagine della striscia si vedeva un guerrigliero con una carrozzina da neonato messa davanti come a scudo di protezione dietro cui ripararsi e sparare, nella seconda immagine un soldato israeliano che invece davanti alla carrozzina con dentro un bambino ci si piazzava lui per proteggerla. A volte le vignette da sole raccontano tutta la storia di fenomeni così complessi come le infinite guerre arabo israeliane. E d’altronde la mitica Golda Meir solleva dire che il conflitto sarebbe cessato “quando gli arabi impareranno ad amare i loro figli più di quanto non odino noi”.Dopo sessanta anni di ammazzamenti questo nodo, che distingue i torti e le ragioni, non è stato ancora sciolto e il massacro di questa inerme famiglia di “coloni”, come li definisce con disprezzo una buona parte della stampa di sinistra italiana ( ma anche di quella cattolica e di quella post fascista), ne è l’ultima tragica testimonianza. E la cosa peggiore di tutte è che in Europa e in Italia queste notizie si nascondono, queste foto si preferisce non vederle mentre le campagne para naziste di boicottaggio dei beni di consumo israeliani o gli assurdi paragoni tra l’apartheid sudafricano e quello, del tutto inventato, degli israeliani nei confronti dei palestinesi continuano ad attirare sempre più giovani e meno giovani. Gente che ha smarrito da tempo la bussola tra il bene e il male o che subdolamente se ne frega per non tradire la propria ideologia anti occidentale. D’altronde anche il professor Roberto Vecchioni che ha vinto Sanremo con una canzone vagamente anti berlusconiana è lo stesso che tempo fa aveva dato scandalo con un’altra canzone dedicata a un kamikaze palestinese. Le scorciatoie mediatiche al successo sono sempre le stesse. Dimitri Buffa http://www.opinione.it/15 Marzo 2011


L'ospizio che fa fumare cannabis

Israele, contro Alzhaimer e Parkinson
Nel kibbutz di Naan, non lontano da Gerusalemme e Tel Aviv, per i pazienti di Alzheimer e Parkinson sono banditi antidepressivi, antidolorifici, antipsicotici, ecc. Nell'ospizio è infatti avviata un'innovativa sperimentazione: per lenire i dolori, agli anziani pazienti, caso unico nel mondo, viene fatta fumare marijuana. I test sono stati avviati dieci mesi fa: ai trentasei ospiti dell'ospizio viene somministrata marijuana tre volte al giorno, seguendo un protoccollo autorizzato dal governo. Il quadro complessivo dei pazienti non solo migliorerebbe, ma al contrario di ciò che avviene con i farmaci tradizionali, non ci sarebbero effetti collaterali. "Non riuscivo nemmeno a prendere un bicchiere d'acqua - ha raccontato a Il Corriere della Sera, Moshe, pittore 78enne che da sei mesi segue la sperimentazione - Ora mi danzano le mani, le gambe, la testa e parlo. Mi rado anche da solo, sono anni che non lo facevo". In Israele, d'altra parte, lo studio dell'uso medico della cannabis è partito già dalla metà degli anni Sessanta e oggi esiste un elenco di malattie per le quali il ministero autorizza la prescrizione. Alcuni ospedali inoltre la sperimentano anche su piccoli pazienti. A Tel Hashomer e Hadassah la marijuana viene mescolata nei lecca-lecca o nei biscotti della merenda dei 480 malati di cancro fra i 2 ai 12 anni. E anche qui i risultati non mancherennero: la cannabis ridurrebbe infatti gli effetti della chemioterapia, quali i conati e la perdita di capelli. I medici israeliani responsabili della sperimentazione sono però chiari: la marijuana lenisce e non guarisce e le regole per la somministrazione sono ferree. A partire dalla Tikum Olam "l'aggiustamondo", la società che rifornisce le strutture mediche: serra in Galilea e spaccio in una farmacia di Tel Aviv, rigorosamente marijuana di tipo Erez, a foglia grande. Controlli della polizia costanti. E per i pazienti nessun costo aggiuntivo, perché, fra i tanti vantaggi, la somministrazione di marijuana avrebbe anche quello di costare molto meno delle medicine tradizionali. 15.3.2011, http://www.tgcom.mediaset.it/


Noa canta, Napoli risponde

di Dario De Marco ⋅ 16 marzo 2011 http://costruendo.lindro.it/
Ah, l’irresistibile retorica della canzone napoletana! Ah, l’insopportabile fascino della canzone napoletana! E infatti, chi si è salvato? Nessuno. Dai grandi tenori dell’epoca di Beniamino Gigli (che Pavarotti non è stato mica il primo, casomai l’ultimo) a Elvis Presley che almeno ebbe la decenza di tradurla, ‘O sole mio (It’s now or never); dal brasileiro Caetano Veloso con la sua ‘Luna Rossa’ all’italo-italiano John Turturro che addirittura ci ha fatto un film (‘Passione’) buttandoci dentro di tutto Fiorello compreso. Ci sono cascati tutti, anche quelli che ci azzeccavano poco o niente. E per esempio, che ci azzecca con Napoli una ebrea yemenita, scappata bambina dalla teocrazia e riparata in Israele, e da lì in America, e poi alla ricerca disperata di una identità di nuovo a Tel Aviv, per perdersi infine e ritrovarsi nella musica, che è come dire in nessun luogo e dappertutto? Perché questa è Achinoam Nin, nota in tutto il mondo come Noa. Che ha appena pubblicato il disco ‘Noapolis’, e indovinate che canta? Tra l’altro è un tornare sulla scena del delitto, perché qualche anno fa Noa aveva già inciso ‘Napoli-Tel Aviv’, un esperimento molto divertente in cui oltre a intervenire ovviamente sugli arrangiamenti musicali, si era fatta anche tradurre i testi in ebraico: straniante, e proprio per la sua distanza meno a rischio di scandalizzare i puristi. Invece, cinque anni dopo, ancora Napoli, e in napoletano stavolta. Disastro? No, sorpresa. Merito suo, della sua grande passione ma anche di alcune scelte intelligenti, e di un bel po’ di studio. Perché oltre al solito Gil Dor, suo alter ego alla chitarra, e al percussionista ebreo-turco Zohar Fresco, Noa è accompagnata dal Solis String Quartet, i cui musicisti sono stati ben più che un semplice supporto strumentale. Si vede dalla scelta dei pezzi, tutt’altro che scontata: certo ci sono i superclassici come ‘Era de maggio’, ‘Torna a Surriento’, ‘I’ te vurria vasa’’ e pure l’inevitabile ‘Tammuriata nera’ (che però almeno non è messa come pezzo di chiusura, e sembra fatta da un’orchestra classica araba nella strofa, mentre nel ritornello ha il pregio di rallentare invece che esplodere di finta popolanità). Né mancano le canzoni più campaniliste o nostalgiche come ‘Santa Lucia luntana’, ‘Napule ca se ne va’, ‘‘A cartulina ‘e Napule’. Ma vengono anche pescate perle semisconosciute, al di fuori del repertorio della canzone napoletana classica (cioè ottocentesca): l’indimenticabile ‘Fenesta vascia’, addirittura due villanelle rinascimentali come ‘Sia maledetta l’acqua’ (riportata alla luce dalla Nuova Compagnia di canto popolare negli anni ’70) e ‘Villanella che all’acqua vai’. Infine tornano le versioni tradotte: ‘Nini Kangy’ e ‘Nonna Nonna’ (Gaa’gua). Gli arrangiamenti sono raffinati senza stravolgere, l’interpretazione è misurata (quanti inutili allucchi abbiamo dovuto sopportare…), e un punto di solito tragico viene superato senza troppi dolori: quello della pronuncia del dialetto, non impeccabile, ma meglio di tanti italiani-non-napoletani, per esempio Mina. Che ci azzecca allora una ebrea yemenita americana israeliana che ha girato il mondo in cerca di se stessa, con una città che non si è mai mossa perché tutto il mondo è venuto fin qui a cercarla? Ecco, niente. E appunto, tutto.


Rabbini israeliani promuovono il matrimonio tra gay e lesbiche

Un gruppo di rabbini ha ideato un’iniziativa per promuovere il matrimonio tra gay e lesbiche in Israele. Finora sono stati celebrati undici matrimoni di questo tipo. I promotori dell’iniziativa spiegano che questo è un modo di conciliare il divieto della legge ebraica nel celebrare nozze omosessuali con il desiderio di non nascondere il proprio orientamento sessuale. Tra le undici coppie gay-lesbo che si sono unite in matrimonio, ce ne sono alcune che hanno avuto figli con l’inseminazione artificiale, altri che vivono benissimo la loro situazione, altri ancora che stanno pensando al divorzio. Tra i rabbini che promuovono questo tipo di nozze spicca il rabbino Areleh Harel, che vive in un insediamento in Cisgiordania e appartiene alla comunità religiosa sionista. Il rabbino afferma che tutte le coppie ricevono il necessario sostegno da parte di psicologi, di consulenti matrimonio e assistenti sociali così come della comunità dei rabbini. Per Harel – che ha una lista di nubendi composta da trenta omosessuali uomini e venti donne – così facendo i due
“non negano la propria identità sessuale, ma vogliono lo stesso avere un focolare sia per essere genitori che per il riconoscimento sociale. Una famiglia non è solo sesso e amore. È un’associazione strumentale, sebbene non solo tecnica”. Pur non essendosi pronunciate ufficialmente, le associazioni lgbt si oppongono all’idea del matrimonio gay-lesbo perché sostengono che se la definizione di famiglia è “relazione, fiducia e amore” allora quella composta da un uomo e una donna entrambi omosessuali non è una soluzione ma l’istituzionalizzazione di una menzogna. Il che mi trova completamente d’accordo. 15 marzo 2011 http://www.queerblog.it/


Dopo il successo mondiale nel campo dell’high-tech, Israele guarda ora ai margini di crescita offerti dal settore delle tecnologie finanziarie

Martedì 15 Marzo 2011 http://www.focusmo.it/
La banca britannica Barclays ha aperto un centro di ricerca e sviluppo in Israele: una mossa accolta con entusiasmo dalle autorità di Gerusalemme. «E’ un grande giorno per l’economia israeliana», ha commentato il ministro dell’Economia, Yuval Steinitz, intervenuto ieri alla cerimonia di inaugurazione. «Trenta anni fa – ha ricordato il ministro – una compagnia chiamata Intel decise di aprire in Israele una piccola unità composta da venti scienziati. Il risultato è stato che le maggiori compagnie di high-tech sono venute in seguito, e il nostro Paese è diventato un’eccellenza a livello internazionale nel campo dell’innovazione tecnologica. Oggi – ha proseguito Steinitz – una delle banche più importanti del mondo lancia un centro ricerche con 200 scienziati. Non abbiamo dubbi che questo sarà l’inizio di una nuova era, che trasformerà il nostro Stato in un punto di riferimento nel settore dello sviluppo e della ricerca delle tecnologie finanziarie». Dello stesso tono anche l’intervento del governatore della Banca d’Israele, Stanley Fischer: «L’evento di oggi – ha dichiarato – dà avvio a un processo per rendere lo Stato ebraico un centro di innovazione in un ambito diverso dall’high-tech, che tradizionalmente è il nostro fiore all’occhiello


Israele promuove il turismo legato allo sport Con una campagna televisiva su Eurosport

Sono sempre più numerose le attività di marketing promosse dal ministero israeliano del Turismo che ha lanciato per la prima volta, in questo mese di marzo, una campagna pubblicitaria televisiva internazionale di NIS 2,5 milioni ( circa 500.000,00 euro) dedicata al tema dello sport. Il canale televisivo Eurosport trasmetterà gli spot di tale campagna in due tempi, di un mese e mezzo ciascuno; la prima fase ha inizio a marzo e la seconda a settembre. Ci saranno inoltre dei collegamenti con la campagna sui vari siti internet gestiti da Eurosport. Questa iniziativa è parte della serie di attività marketing in programma per il 2011 per le quali il ministero del Turismo ha stanziato NIS 265 milioni (circa 52.5 milioni di euro). La campagna 2011 è il proseguimento delle attività di pr e marketing realizzate nel 2010 - attività che hanno portato ad un numero record di visitatori in Israele (3.450.000). http://www.guidaviaggi.it/15/03/2011


Salam Fayyad

Basta col doppio gioco palestinese

Da un articolo di Guy Bechor http://www.israele.net/
Non mancano, anche qui in Israele, degli ingenui che sono rimasti molto favorevolmente colpiti dalla condanna del massacro a Itamar della famiglia Fogel pronunciata da Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e Salam Fayyad, presidente e primo ministro dell’Autorità Palestinese. Sarebbe invece ora di capire che l’attuale Autorità Palestinese sta giocando una partita contro Israele assai più sofisticata e pericolosa di quella giocata a suo tempo dall’Autorità Palestinese di Yasser Arafat.
Arafat faceva il doppio gioco impegnandosi contemporaneamente sia nel processo diplomatico con Israele, sia nel terrorismo contro di esso. Abu Mazen e Fayyad, invece, hanno capito che il terrorismo contro Israele, per quanto dolore possa infliggere, di fatto rafforza la causa dello stato ebraico, sia all’interno che sul piano internazionale. Quindi sono passati a un gioco più raffinato, impegnandosi contemporaneamente sia (teoricamente) nel processo diplomatico con Israele, sia (concretamente) in una insistente campagna per la sua delegittimazione. Infatti è l’Autorità Palestinese di Abu Mazen quella che guida la martellante campagna contro la legittimità di Israele alle Nazioni Unite, in ogni altro foro internazionale, e nell’opinione pubblica mondiale. Il prossimo settembre, l’Autorità Palestinese di Abu Mazen vorrebbe imporre a Israele uno stato palestinese indipendente senza negoziato né accordo di pace. Ed effettivamente l’Autorità Palestinese di Abu Mazen sta facendo di tutto per mettere alle corde Israele in ogni occasione possibile, e opera ad ogni livello contro il suo diritto ad esistere. Quest’opera di delegittimazione, e la doppiezza dell’Autorità Palestinese di Abu Mazen, sono persino più pericolosi dello stesso terrorismo di Hamas, il quale per lo meno, con la sua feroce brutalità, mette in chiaro davanti al mondo da che parte stanno, in questa vicenda, quelli disposti al dialogo e al compromesso e quelli che disposti non lo sono affatto. È tempo di mettere fine a questo gioco. Chi si impegna in un negoziato di pace non può allo stesso tempo adoperarsi incessantemente contro il diritto ad esistere del suo interlocutore. Cioè, non solo rifiutarsi di riconoscerlo per quello che è (lo stato nazionale del popolo ebraico), ma scalzare il suo diritto ad esistere, metterlo alle corde, coprirlo di insulti e di calunnie ad ogni occasione. Oggi l’Autorità Palestinese è tenuta in vita da Israele. Se non fosse per la presenza delle Forze di Difesa israeliane in Cisgiordania e per gli arresti, giorno dopo giorno, dei ricercati per terrorismo, questa Autorità Palestinese non esisterebbe più già da un pezzo. Hamas l’avrebbe rovesciata ed eliminata in pochi giorni, come fece nella striscia di Gaza nel giugno 2007, quando gli attivisti di Hamas ammazzarono i loro “fratelli” di Fatah gettandoli dai piani alti degli edifici o mettendoli direttamente al muro. Curiosamente non venne varata nessuna inchiesta internazionale a seguito di quel massacro, così come non verrà formata nessuna commissione d’inchiesta per i massacri di centinaia di loro concittadini ad opera delle autorità in Libia, Egitto, Bahrain, Yemen, e così via un po’ in tutto il Medio Oriente. Israele non deve accettare il doppio gioco dell’Autorità Palestinese a spese dello stato ebraico, mentre proprio lo stato ebraico tiene in vita l’Autorità Palestinese per essere poi bersaglio delle sue campagne di calunnie e di demonizzazione. E non deve aspettare le mosse a livello internazionale che l’Autorità Palestinese intende fare a settembre. È giunto il momento di esercitare una contro-pressione. In questo preciso momento Israele dovrebbe mettere in chiaro ad Abu Mazen che, se il gioco della delegittimazione andrà avanti, Israele potrebbe cambiare le cose sul terreno: potrebbe ritirarsi completamente dalle aree popolate da palestinesi in Cisgiordania, fissando un nuovo confine anche a costo di rimuovere gli insediamenti isolati. Il mondo loderebbe la mossa; ma così facendo Israele lascerebbe Abu Mazen e compagni alla mercé di Hamas, che non riserverebbe loro il cortese trattamento che ha riservato loro Israele. E non dovrebbe trattarsi solo di una minaccia: il governo dovrebbe attrezzarsi concretamente per muovere in quella direzione, che significherebbe la fine dell’Autorità Palestinese per mano di Hamas, come è avvenuto a Gaza. L’avvertimento dovrebbe essere fatto arrivare ora, ad Abu Mazen e a Fayyad. Che la smettano di cercare di mettere alle corde Israele e Stati Uniti e di chiedere alle Nazioni Unite uno stato proclamato in modo unilaterale (senza negoziato né accordo con Israele), altrimenti ne pagheranno caro le conseguenze. E non serviranno le condanne del massacro terroristico fatte in inglese alla radio israeliana. (Da: YnetNews, 15.3.11)


Contrabbando armi sulla nave Victoria

Mercoledì 16 Marzo 2011, http://www.focusmo.it/
Il 15 marzo 2011, le forze navali israeliane sono salite a bordo della nave battente bandiera liberiana VICTORIA, dopo aver ottenuto il consenso da parte del capitano della nave.
Le segnalazioni indicavano che la nave stava trasportando armi illecite destinate a organizzazioni terroristiche a Gaza. La nave si trovava fuori dalla costa di Israele, nelle acque del mar Mediterraneo. La nave risulta partita dal porto di Latakia in Siria per proseguire poi verso il porto di Mersin in Turchia. È stato accertato che la Turchia non ha avuto alcun collegamento con il tentativo di contrabbando di armi. Di seguito, i punti sottolineati dall'establishment israeliana, a seguito dell'accaduto. Il tentativo di introdurre armi di contrabbando sottolinea la necessità del paese di controllare tutte le merci che entrano nella striscia di Gaza, controllata da Hamas. Israele ha agito per autodifesa: il contrabbando illegale di armi nella striscia di Gaza costituisce una minaccia diretta ed imminente contro la protezione e la sicurezza dello stato d'Israele e dei suoi cittadini. Il collegamento iraniano: La prova preliminare indica che le armi a bordo della nave provenivano dall'Iran, che continua ad armare la striscia di Gaza. Secondo il capo di Hamas, la striscia di Gaza è diventata parte dell'asse di Iraniano-Siriano. Va rilevato che i documenti di trasporto della nave Victoria non rivelavano la vera natura del contenuto delle casse sulla nave, in violazione alle disposizioni relative alle convenzioni e alle norme professionali dell'organizzazione marittima internazionale, comprese la convenzione sulla sicurezza di vita in mare (SOLAS) ed il codice marittimo internazionale (IMDG) relativo alle merci pericolose. Uno dei tanti tentativi di contrabbando: Ci sono state una serie di istanze precedenti (compresi gli incidenti che hanno coinvolto le navi Santorini, Abu Hassan, Karine A, l'Ansa India, Moncegorsk, nonché le navi da carico Everest e Francop) in cui il trasporto commerciale transazionale legale è stato abusivamente utilizzato dagli stati che patrocinano il terrorismo, compreso l'Iran, la Siria ed il Libano, per facilitare il traffico illegale di armi alle organizzazioni terroristiche nella regione.


Voci a confronto

Il massacro della famiglia dei “coloni” (e, si noti bene, vengono sempre definiti coloni, non israeliani, uccisi da “fuoco nemico”, e non da terroristi, esseri indegni di essere considerati uomini per l’odio manifestato anche nei confronti di 2 bambini e di un neonato), trova ancora spazio in alcuni quotidiani di oggi; Bret Stephens firma un articolo sul Wall Street Journal dal titolo significativo: Are Israeli Settlers Human? Analoghe le parole di Dennis Prager in un articolo dal titolo: The other tsunami. E indigna dover notare che, per voler essere schierati comunque con una determinata parte, quella palestinese, altri quotidiani, Repubblica in particolare, dimentichi del primario dovere di informare i loro lettori, hanno preferito ignorare questa orribile strage. Eppure oggi, su Repubblica, il direttore Ezio Mauro, in un articolo firmato a.st., ha evidenziato i due morti del Bahrein già in un titolo. Mi si permetta di ricordare al direttore di Repubblica che l’esperienza insegna che, qualora i nemici della nostra civiltà dovessero trionfare anche in questa Europa malata, non saranno i suoi comportamenti professionali a salvarlo; l’odio totale che accompagnerebbe i nemici vincitori travolgerebbe anche lui e tutti i “democratici” che la pensano come lui. Dal Medio Oriente la notizia principale di oggi è quella di una grande manifestazione organizzata dai fedelissimi di internet per riunire le due fazioni rivali di Fatah e Hamas; nella maggior parte dei quotidiani si parla di 100.000 manifestanti a Gaza, presto fagocitati dal movimento di Haniyeh che ha sovrastato le bandiere che dovevano essere palestinesi con quelle verdi del suo movimento. A parole Haniyeh ha anche proposto al rivale Abu Mazen un incontro, ma, dal momento che l’uno rifiuta le elezioni volute dall’altro, appare difficile immaginare come si possa pervenire a una qualsiasi intesa. Tiziana Barrucci, su Europa, sembra quasi sposare le posizioni di Hamas, ma certo ben più criticabile appare Rinascita che, in un articolo firmato Matteo Bernabé, parla di “un milione” di palestinesi scesi in strada, e ben 200.000 a Gaza. Cifre, queste, non ritrovate altrove (tutti parlano di 100.000 manifestanti a Gaza e poche migliaia a Ramallah). Assolutamente schierato appare anche El Pais che addebita ad Israele tutte le colpe che provocano la mancanza di democrazia tra i palestinesi (e ti pareva). Sul Foglio si segnala la nomina di Amidror alla guida del Consiglio di sicurezza nazionale: nomina parecchio discussa, soprattutto nel mondo della sinistra israeliana, perché Amidror, primo esponente del sionismo religioso a essere diventato generale in Israele, è visto come un falco accanto a un mondo, quello dei politici, nel quale i leaders hanno la tendenza a vendere le proprie illusioni. Ancora di Israele parla il Secolo XIX, in un articolo di Ibrahim Refat dedicato, in realtà agli avvenimenti libici: se Gheddafi paragona il proprio intervento armato a quello di Israele del 2008, per Refat la conseguenza che se ne deve trarre è che il rais difenderebbe le repressioni israeliane. A mio personale modo di vedere, simili parole denotano solo l’abbassamento del livello degli analisti politici dei nostri giorni. Per fortuna che oggi si possono leggere anche le interessanti analisi di Michael Leeden che, su Liberal, percorre gli avvenimenti di questi giorni e, nel finale, spiega l’assurdità della politica occidentale. Intanto ieri a Parigi si sono riuniti i ministri degli Esteri del G8, sempre più incerti, e divisi, sulle mosse necessarie (o, meglio, che sarebbero state necessarie, ndr) per fermare Gheddafi; da questa riunione sono uscite tante inutili parole, come ci spiega Stefano Montefiori sul Corriere; ancora una volta il mondo occidentale sembra quasi voler dare ai dittatori più violenti la luce verde per continuare a commettere i loro crimini. Possono stare tranquilli che l’Occidente sarà duro con loro solo se saranno preventivamente sconfitti da altri. Sempre sul Corriere, accanto all’articolo di Lorenzo Cremonesi che continua a descrivere quanto succede sul terreno della Libia orientale (e le notizie sono sempre peggiori per i rivoltosi), Davide Frattini dice che Hillary Clinton è volata al Cairo per toccare con mano la situazione che si è venuta a creare; ha così dovuto constatare che, dopo i tentennamenti, e i voltafaccia, della politica americana nei confronti della rivoluzione cairota, i giovani del Movimento 25 gennaio non hanno neppure voluto incontrarla. Altro grave schiaffo subito dagli USA del presidente Obama. Ma questo non sembra essere servito di lezione, visto che gli stessi tentennamenti li vediamo oggi, come spiega Frattini, nel Bahrein, in Arabia Saudita e negli emirati a tutto vantaggio dell’Iran di Ahmadinejad che può solo ridere della insipienza degli USA. Maria Giovanna Maglie su Libero sfrutta il filmato preparato da Tareq Heggy per spiegare il reale piano escogitato dai Fratelli Musulmani per espandere ovunque il loro dominio; fin dal XII secolo, quando furono bruciate le opere di Averroé, l’islam ha deciso di rinunciare al pensiero critico. I risultati si possono scorgere nell’articolo pubblicato dall’Osservatore Romano; l’odio nel mondo islamico si manifesta contro tutti i non osservanti del corano (i cristiani in particolare); in Iraq i cristiani, in 25 anni, si sono ridotti a circa un decimo (da 1.4 milioni a 150.000). L’occidente dovrebbe capire che prima di erogare nuovi, sempre più abbondanti aiuti, dovrebbe esigere il rispetto dei principali diritti fondamentali. Dalle risposte ricevute dal Foreign Office, e riprese dall’Osservatore Romano, si vede invece che questa è pure teoria, e che i nostri soldi continuano a finire inutilmente nelle voraci mani sbagliate. Nessun giornale, a mia conoscenza, ha riportato una notizia che, al contrario, avrebbe ben meritato di essere pubblicata in bella evidenza. Israele tutto, ieri, si è fermato per 5 minuti per ricordare la lunga, disumana, illegale prigionia di Gilad Shalit. Forse questo generale silenzio dovrebbe coprire il mancato intervento di chi, come la Croce Rossa Internazionale, ha l’obbligo istituzionale di intervenire? Intanto noi osserviamo che, anche questa volta (come sempre quando i fatti sono di estrema gravità), Israele ha dato dimostrazione di una unità che raramente possiamo riscontrare altrove. Emanuel Segre Amar 16 marzo 2011, http://moked.it/


Prospettive di pace, fra fantasia e realtà

La mostruosa, ripugnante strage di Itamar, nella quale sono stati sgozzati bimbi inermi di pochi anni e pochi mesi, richiama l’attenzione sul dibattito e le polemiche recentemente sollevate dalla pubblicazione non autorizzata dei cosiddetti “Palestinian Papers” (ossia i documenti riservati in cui sarebbero stati fissati alcuni possibili punti di compromesso, su cui le due parti impegnate nei colloqui di pace - governo israeliano e Autorità palestinese - avrebbero già dimostrato, ciascuna nel proprio ambito, una disponibilità di massima riguardo alle concessioni da fare reciprocamente). I sommovimenti in atto in diversi Paesi arabi sembravano aver fatto passare in secondo piano le pubbliche reazioni a tale divulgazione, ma oggi esse sembrano tornare, di fronte al sangue innocente versato, di drammatica attualità, altamente indicative riguardo alla valutazione della concreta possibilità di giungere, prima o poi, a una qualche forma di accordo di pace. La generale ‘vulgata’ del contenuto di tali documenti, infatti (iniziata da un paio di articoli americani, e poi immediatamente, acriticamente dilagata in tutto il mondo), è stata quella di una eccezionale disponibilità al compromesso che sarebbe stata dimostrata dalla parte palestinese (in particolare, riguardo all’accettazione alla permanenza, in Cisgiordania, di alcuni insediamenti, in cambio di altre concessioni territoriali), che starebbe quindi automaticamente, irrefutabilmente a dimostrare - in ragione dell’impasse negoziale - una speculare rigidità da parte d’Israele, unico vero responsabile del mancato raggiungimento di un accordo. Una ‘vulgata’ che, nella generalità dei commenti da parte araba, si è trasformata nell’univoca, vibrante denuncia della ‘svendita’ della causa palestinese che sarebbe stata ordita dai negoziatori di Abu Mazen e Salam Fayyad, additati come “servi degli americani e degli israeliani” per il solo fatto di avere negoziato con il gabinetto di Olmert. Accuse, naturalmente, respinte con sdegno dagli interessati, i quali si sono affrettati a smentire ogni fondamento alle accuse di “cedimento al nemico” - negando la veridicità dei documenti, e attribuendone la paternità ai servizi segreti israeliani -, ma senza potere con ciò arrestare un immediato crollo di consensi e credibilità, a vantaggio delle forze più radicali. Ed è esattamente in questo contesto che si inserisce l’orrore di Itamar, come a dire: questo, e solo questo, deve essere il modo di “trattare”. Personalmente, da quel po’ che abbiamo capito dei contenuti dei Papers, veri o falsi che siano, non ci è per niente sembrato che essi contemplassero delle rinunce unilaterali per i palestinesi, o più penalizzanti per loro rispetto alla controparte. Basterebbe considerare che i documenti avrebbero accettato il principio di una spartizione di Gerusalemme - certamente non facile da accettare per i cittadini israeliani, anche i più pacifisti e inclini al compromesso -, e non avrebbero posto alcun ostacolo sulla strada del tanto agognato - almeno a parole - “Stato palestinese”. Ma non è questo il punto. Ciò che, come abbiamo detto, rende assolutamente pessimisti riguardo all’esito finale del negoziato è l’assenza, in tutto il mondo arabo, di una sola voce - che sia una - improntata a un sia pur parziale, ipotetico, condizionato apprezzamento del tentativo di compromesso. Il commento prevalente, se non unico, è stato infatti quello ricordato, sintetizzabile nella semplice parola “tradimento”. Un rifiuto che non appare per niente rivolto contro qualche specifico contenuto degli accordi (non ce ne sarebbe stata alcuna ragione), ma, in sostanza, contro il fatto stesso di avere negoziato, o, almeno, aver mostrato di farlo. E se, da una parte, l’idea stessa della trattativa appare rigettata con esecrazione, da pressoché tutti i commentatori arabi, ben diversa (minoritaria, ambigua, esitante) è apparsa la condanna della strage. Un quadro fosco e desolante, nel quale le prospettive di pace mostrano una concretezza pari allo zero. Francesco Lucrezi, storico,http://www.moked.it/